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Germania 1830/31: La “malattia asiatica” (colera) che uccise G. W. F. Hegel

 

 

Questo mostro – il mostro che essi hanno generato in me – tornerà a tormentare i suoi creatori dalla tomba, dalla fossa, dalla fossa più profonda. Scaraventatemi in quell’altra vita, la discesa all’inferno non mi cambierà. Striscerò indietro per stanare le loro tracce, in eterno. Non riusciranno a sconfiggere la mia vendetta, mai, mai. Faccio parte delle persone virtuose che ci mettono molto ad arrabbiarsi, ma la cui furia non può essere arginata. Ci riuniremo ala loro porta in tal numero che il rombo dei nostri passi farà tremare la terra. Li accuserò di questo, di ventotto anni senza soddisfazioni. Pretenderò che riparino con il sangue. Li caricherò come un elefante maschio impazzito, ferito, le orecchie sventagliate, la proboscide alzata, con barriti squillanti. Danzerò sul petto dell’avversario e la sola cosa che riuscirà mai a scorgere nei miei occhi sarà una spada per trapassargli il cuore crudele. Ecco qui un negro schifoso decisamente scontento. Non perdonerò mai, non dimenticherò mai e se di una cosa potrò essere considerato colpevole sarà di non averli perseguitati abbastanza.

George Jackson

Ma tutti i pazzi, i maledetti, i criminosi sono stati bambini, hanno giocato come te, hanno creduto che qualcosa di bello li aspettasse. Quando avevamo tre, sette anni, tutti, quando nulla era accaduto o dormiva solamente nei nervi e nel cuore.

Cesare Pavese

 

Quando il bambino era bambino

Quando il bambino era bambino,
se ne andava a braccia appese.
Voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente;
e questa pozza, il mare.

Quando il bambino era bambino,
non sapeva d’essere un bambino.
Per lui tutto aveva un’anima, e tutte le anime erano tutt’uno.

Quando il bambino era bambino,
su niente aveva un’opinione.
Non aveva abitudini.
Sedeva spesso a gambe incrociate,
e di colpo sgusciava via.
Aveva un vortice tra i capelli,
e non faceva facce da fotografo.

Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande.
Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non sono lí?
Quando é cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole, é forse solo un sogno?
Non é solo l’apparenza di un mondo davanti a un mondo,
quello che vedo, sento e odoro?
C’é veramente il male e gente veramente cattiva?
Come puó essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare?
E che un giorno io, che sono io, non saró piú quello che sono?

Quando il bambino era bambino,
per nutrirsi gli bastavano pane e mela,
ed é ancora cosí.

Quando il bambino era bambino,
le bacche gli cadevano in mano,
come solo le bacche sanno cadere. ed é ancora cosí.
Le noci fresche gli raspavano la lingua, ed é ancora cosí.
A ogni monte, sentiva nostalgia di una montagna ancora piú alta,
e in ogni cittá, sentiva nostalgia di una cittá ancora piú grande.
E questo, é ancora cosí.
Sulla cima di un albero,
prendeva le ciliegie tutto euforico, com’é ancora oggi.
Aveva timore davanti ad ogni estraneo, e continua ad averne.
Aspettava la prima neve, e continua ad aspettarla.

Quando il bambino era bambino,
lanciava contro l’albero un bastone, come fosse una lancia.
E ancora continua a vibrare.
 
Peter Handke

 

 

Recitativo (Due invocazioni e un atto di accusa)

Uomini senza fallo, semidei
Che vivete in castelli inargentati
Che di gloria toccaste gli apogei
Noi che invochiam pietà siamo i drogati.
Dell’inumano varcando il confine
Conoscemmo anzitempo la carogna
Che ad ogni ambito sogno mette fine:
Che la pietà non vi sia di vergogna.

Banchieri, pizzicagnoli, notai,
Coi ventri obesi e le mani sudate
Coi cuori a forma di salvadanai
Noi che invochiam pietà fummo traviate.

Navigammo su fragili vascelli
Per affrontar del mondo la burrasca
Ed avevamo gli occhi troppo belli:
Che la pietà non vi rimanga in tasca.

Giudici eletti, uomini di legge
Noi che danziam nei vostri sogni ancora
Siamo l’umano desolato gregge
Quanti innocenti all’orrenda agonia
Votaste decidendone la sorte
E quanto giusta pensate che sia
Una sentenza che decreta morte?

Uomini cui pietà non convien sempre
Male accettando il destino comune,
Andate, nelle sere di novembre,
A spiar delle stelle al fioco lume,
La morte e il vento, in mezzo ai camposanti,
Muover le tombe e metterle vicine
Come fossero tessere giganti
Di un domino che non avrà mai fine.

Uomini, poiché all’ultimo minuto
Non vi assalga il rimorso ormai tardivo
Per non aver pietà giammai avuto
E non diventi rantolo il respiro:
Sappiate che la morte vi sorveglia
Gioir nei prati o fra i muri di calce,
Come crescere il gran guarda il villano
Finché non sia maturo per la falce.

Gian Piero Reverberi / Fabrizio De Andre

 

 

 

 

Per farti dimenticare che eri un uomo
ti insegnarono a cantare le lodi a Dio
e quei canti ritmando il tuo calvario
ti promettevano la beatitudine di un mondo migliore
ma nel tuo cuore di essere umano
tu non chiedevi quasi niente
solo il tuo diritto alla vita
e la tua parte di felicità.

Lumumba

La conga con Fidel

[…]
Vado a zonzo per le vie dell’Avana
confondo gli uni con gli altri gli alberi sull’asfalto
non c’è modo di distinguere le macchine dalla strada asfaltata
la pioggia dal sole
le nuvole bianche dalle piscine celesti
confondo i frutti e le donne
i bambini che vanno a scuola e la libertà.
In questa città è impossibile separare la libertà dalla gente
confondo i fucili mitragliatori e le porte, quelle coi colonnati,
quelle senza, quelle di ferro, di legno, di vetro, grandi
e piccole, tutte le porte delle strade le confondo con i fucili
confondo le barricate fatte di sacchi di sabbia e l’Atlantico
non c’è modo di distinguere l’orizzonte che aspetta al varco la sagoma
delle portaerei americane
dalle barricate fatte di sacchi di sabbia
confondo le madri contadine con il palazzo della presidenza
confondo i mausolei le statue i busti di José Marti
con le fotografie di Fidel
confondo Fidel con le canzoni, l’Internazionale col cha-cha-cha
la conga con Fidel
somos socialistas adelante adelante
[…]

Nazim Hikmet, L’Avana 1961

L'inconnu

Diceva le mie labbra sono grappoli mostruosi
pantere che cantano
più dolci degli uccelli così dolci della collina
e dei tori insanguinati dei nuvoloni scuri
Diceva
Io porto nel mio seno
onde immense ed aspre
in mezzo ai fiori così belli dei grandi giorni
Chiamava Maria
una bambina che portava dei legumi
Diceva diceva ancora
Io sono un papavero
che risveglia il mattino l’azzurro smorto delle bestie

L’esistenza è una fiamma che fonde e ricompone incessantemente le nostre teorie; il pensiero esistenziale non offre alcuna garanzia, alcun rifugio ai senza tetto, non si rivolge a nessun altro fuorché a te e a me. E trova la sua validità quando, attraverso il baratro dei nostri linguaggi e stili diversi, i nostri errori, i torti, le perversità, scopriamo nel comunicare con un altro l’esperienza di un rapporto umano che si stabilisce, si smarrisce, va perduto, si raggiunge di nuovo. Noi speriamo di condividere l’esperienza di un rapporto umano, ma l’unico modo onesto di cominciare, o anche di finire, sarebbe quello di condividere l’esperienza della sua assenza.

Ronald D. Laing

Solo 13:10 minuti…

Umanoidi ed umani

Blade_runner_Roy_

Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi:
navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione,
e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia.
È tempo di morire.
(Blade Runner)

 Replica al replicante

Ne ho viste di cose in vita mia:
Yvette Guilbert, a casa sua, per un intero après midi mi ha dato un saggio del suo mestiere. Ho visto girare Chaplin. Ho visto Šaljapin e Stanislavskij, le riviste di Ziegfeld all’Admirals Palast a Berlino, Mistinguette al Casino de Paris, Cathrine Cornell e Linn Fontaine con Lundt, la Nazimova l’ho vista nei testi di O’Neill, e Majakovskij alle prove di Mistero buffo; ho parlato con Bernard Shaw di fonofilm e con Pirandello del tema d’una pièce; ho visto Montahus, in un minuscolo teatrino a Parigi, quello stesso Montahus per vedere il quale Vladimir Ilič attraversò l’intera città; ho visto Raquel Meller e gli spettacoli di Reinhardt, le prove del Cocu, le prove generali di Hadibuk e di Enrico XIV, il Frezer di Čechov e il Frezer di Vachtangov, ho visto la Jota aragonese di Fokin e la Karsavina in Chopiniana, Al Jolson, Gershwin intento a eseguire la Rapsodia in blu; ho visto le tre arene di Barnum e Bailey e i circhi di pulci alle fiere, Primo Carnera sbattuto da Schmeling fuori dal ring in presenza del principe di Galles, ho assistito ai voli di Utočkin e al carnevale di New Orléans, ho lavorato alla Paramount con Jackie Coogan; ho ascoltato Yehudi Menuhin nella Sala Čajkovskij; ho cenato con Douglas Fairbanks a New York e ho pranzato con Rin-tin-tin a Boston; ho ascoltato la Plevickaja alla Casa dell’Esercito e della Flotta e ho visto il generale Suchomlinov in quella stessa sala sul banco degli imputati, ho visto il generale Brusilov quale testimone in quello stesso processo e il generale Kuropatkin – mio vicino di casa – intento, di mattina, a fare ginnastica; ho osservato Lloyd George, mentre pronunciava ai Comuni un discorso in favore del riconoscimento dell’Unione Sovietica; lo zar Nicola II all’inaugurazione del monumento a Pietro I a Riga; ho fotografato un arcivescovo messicano ed ho aggiustato, dinanzi alla macchina da presa, la mitra sulla testa del nunzio apostolico Rosas y Flores…
Ho passeggiato in automobile con Greta Garbo, ho assistito ad una corrida e mi sono fatto fotografare con Marlene Dietrich (Legs).
Ma nessuna di queste impressioni potrà mai sovrapporsi, nella mia memoria, a quelle dei tre giorni di prove di Casa di bambola, nella palestra di viale Novinskij.
Ricordo un tremito incessante.
Non era freddo, era emozione,
erano i nervi, tesi fino allo spasimo.

Sergej Ejzenštejn (1898-1948)

Da parecchio tempo il pensiero della morte mi è familiare […] Non ho mai voluto ignorarla, negarla. Ma non c’è molto da dire sulla morte quando si è atei come me […] Ciò nonostante mi interrogo sulla forma di di questa morte. Mi capita così, per distrarmi, di pensare al nostro vecchio inferno. Tutti sanno che fiamme e forconi sono spariti e che l’inferno, per i teologi moderni, è soltanto la privazione della luce divina. Mi vedo fluttuare in un’oscurità eterna, con il mio corpo, con tutte le mie fibre, che mi saranno necessarie per la resurrezione finale. Improvvisamente un altro corpo mi urta negli spazi infernali. È un siamese morto duemila anni fa cadendo da un cocco. Si allontana nel buio. Passano milioni di anni, poi sento un altro colpo alla schiena. È una vivandiera di Napoleone. E così via.
[…] Da vari anni, tutte le volte che lascio un posto ben conosciuto, nel quale ho vissuto e lavorato, che ha fatto parte di me, come Parigi, Madrid, Toledo, El Paular, San José Purua, mi fermo un attimo per dirgli addio. Gli parlo, dicendogli per esempio. “Addio, San José. Qui ho avuto momenti felici. Senza di te la mia vita sarebbe stata diversa. Adesso me ne vado, non ti vedrò più, e tu continuerai ad esistere senza di me, ti dico addio”. Dico addio a tutto, alle montagne, alla sorgente, agli alberi e alle rane.
Naturalmente ogni tanto capita di tornare in un posto che ho già salutato per l’ultima volta. Ma non importa. Andandomene, lo saluto di nuovo.

Luis Buñuel

«Je défends que mon corps soit ouvert, sous quelque prétexte que ce puisse être. Je demande avec la plus vive instance qu’il soit gardé quarante-huit heures dans la chambre où je décéderai, placé dans une bière de bois qui ne sera clouée qu’au bout des quarante-huit heures prescrites ci-dessus, à l’expiration desquelles ladite bière sera clouée ; pendant cet intervalle, il sera envoyé un exprès au sieur Lenormand, marchand de bois, boulevard de l’Égalité, nº 101, à Versailles, pour le prier de venir lui-même, suivi d’une charrette, chercher mon corps pour être transporté, sous son escorte, au bois de ma terre de la Malmaison, commune de Mancé, près d’Épernon, où je veux qu’il soit placé sans aucune cérémonie, dans le premier taillis fourré qui se trouve à droite dans ledit bois, en y entrant du côté de l’ancien château par la grande allée qui le partage. Ma fosse sera pratiquée dans ce taillis par le fermier de la Malmaison, sous l’inspection de M. Lenormand, qui ne quittera mon corps qu’après l’avoir placé dans ladite fosse ; il pourra se faire accompagner dans cette cérémonie, s’il le veut, par ceux de mes parents ou amis qui, sans aucune espèce d’appareil, auront bien voulu me donner cette dernière marque d’attachement. La fosse une fois recouverte, il sera semé dessus des glands, afin que, par la suite, le terrain de ladite fosse se trouvant regarni et le taillis se trouvant fourré comme il l’était auparavant, les traces de ma tombe disparaissent de dessus la surface de la terre, comme je me flatte que ma mémoire s’effacera de l’esprit des hommes […]».

[…] con la preghiera che venga lui stesso, con una carretta, a prendere il mio corpo per trasportarlo, sotto sua scorta, al bosco della mia terra di Malmaison, comune di Mancé, nei pressi di Épernon, dove voglio che sia posto, senza alcuna specie di cerimonia, nella prima macchia che si trova a destra nel detto bosco entrando dalla parte del vecchio castello per il grande viale che lo attraversa […] Una volta ricoperta la fossa vi si semineranno delle ghiande, in modo che in seguito, quando il terreno della fossa stessa non sarà più brullo e il bosco sarà tornato folto come prima, le tracce della mia tomba scompaiano dalla faccia della terra, come mi auguro che il ricordo di me si cancelli dalla memoria degli uomini, fatta eccezione per il ristretto numero di coloro che hanno voluto amarmi sino all’ultimo e di cui porto con me, nella tomba, un ricordo dolcissimo.

D. A. F. De Sade

 

DISCENDENZA

Eccomi tornato all’accecante biancore dei tubi fluorescenti attorno allo specchio scadente del camper parcheggiato lungo il Paseo de Peralta, nella stessa città dove è stato sepolto mio padre e dove è nata mia figlia. Eccomi di nuovo qui per un nuovo film, alla mia età, nel quale recito l’ennesimo militare, cosa che non sono e che non sarò mai, ma che certamente erano mio padre e tutti i suoi fratelli, e il loro padre, il nonno, e il bisnonno arrivando così fino alla caduta di Richmond e ancora più giù fino a Concord e Lexington e risalendo ancora più indietro fino alla conquista normanna e ai pagani che indossavano i teschi di vitello e alle invasioni vichinghe e ai funerali sulle lunghe navi con la prua a forma di drago. Vuoi continuare ad andare indietro nel tempo ancora per molto? A che pro? E poi chi pensi di trovarci? Un veggente? Uno che prevede il destino? Ecco che sono tornati a chiamarmi con il walkie-talkie, e bussano delicatamente alla porta di metallo: gli assistenti alla regia, gli assistenti degli assistenti alla regia, gli assistenti degli assistenti degli assistenti alla regia. Vogliono assicurarsi che io sia pronto. Vestito. Vogliono accertarsi che io sia pronto a essere pronto nel caso loro siano pronti. Potrebbero aver bisogno da un momento all’altro che io mi piazzi davanti alla macchina da presa a recitare quell’eterno personaggio con l’uniforme decorata e un’aura di cupa e stanca determinazione esibita nonostante le terribili difficoltà. Da dove salta fuori questa mia affinità con un personaggio, con un uomo del genere? L’arroganza della mascella decisa. Lo sguardo minaccioso. E quel terribile presagio di un disastro imminente? Forse mi viene dal sedile in acciaio di una jeep, laggiù nelle Marianne, seduto accanto a mia madre sotto la pioggia monsonica. Oppure dal collo di mio padre, nel punto in cui non smetteva di grattarsi ossessivamente le cicatrici provocate dal proiettile shrapnel. Oppure dal centro nascosto di quel terrore provato per essermi perso nel Gran Bacino, di notte, nella più completa oscurità e dopo aver finito la benzina. Cercare così, a vanvera, non serve. Mettiti l’abito di scena. Esci e affronta le conseguenze. Se tutto va bene una qualche maschera si materializzerà. Qualcuno da un lontano passato che io possa riconoscere. Qualcosa cui basterebbe darmi un colpetto sulla spalla per portarmi lontano da qui. E credimi, non esiterei un istante.

Sam Shepard

Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo nel futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente. Noi siamo stati i testimoni e i compartecipi di grandi cataclismi sociali, scientifici, politici, e di altri ancora. La vita quotidiana è rimasta indietro. Secondo una splendida iperbole di  Majakovskij, “l’altra gamba corre ancora nella via accanto”.
[…] Neppure il futuro ci appartiene. Tra qualche decennio ci affibbieranno duramente il titolo di “uomini dello scorso millennio”. Avevamo soltanto canzoni affascinanti che ci parlavano del futuro, e d’un tratto queste canzoni da dinamica del presente si sono trasformate in fatto storico-letterario. Quando i cantori sono uccisi, e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione, nullatenente nel più autentico senso della parola.

Roman Jakobson

Dieci ultimi minuti

 

Le Guetteur mélancolique

Un cahier d’anciens croquis
Plein de portraits de femmes jeunes
Un vieux vin dont le goût exquis
En retour réclame des jeûnes

Voici la joie aussi d’entendre
D’ancienne musique tendre
Et ce charme encore nouveau
Tirer du neuf du vieux cerveau

Avoir vieux livres vieux amis
Jouir des jours mûrs de l’automne
Voilà tous les plaisirs hormis
Celui qui toujours nous étonne

Celui que l’on nomme amour
Pour qui seul le monde respire
Par qui tout connaît le retour
Et le départ la nuit le jour

Vivre et mourir ô mieux ô pire
 
Guillaume Apollinaire

[Un quaderno di schizzi antichi
Pieno di ritratti di giovani donne
Un vecchio vino il cui gusto squisito
In cambio reclama digiuni

Ecco anche la gioia di ascoltare
Antiche tenere musiche
E questo incanto ancora nuovo
Tirar del nuovo dal vecchio cervello

Avere vecchi libri vecchi amici
Godere i giorni maturi dell’autunno
Ecco tutti i piaceri fuorché
Quello che sempre ci stupisce

Ciò che chiamiamo amore
Per cui soltanto il mondo respira
Per cui tutto conosce il ritorno
E la partenza la notte ed il giorno

Vivere e morire o meglio o peggio]

An diesem, woran dem Geiste genügt,
ist die Größe seines Verlustes zu ermessen.

[Da ciò di cui lo spirito si accontenta
è misurabile la grandezza di ciò che ha perduto]

G. W. F. Hegel

Nostalgia

Nostalgia 2

Spettri di Derrida

Esiste un rapporto privilegiato con l’immagine che io preservo grazie al cinema. So che c’è in me un tipo di emozione legato alle immagini e che proviene da molto lontano. Non si formula nei modi della cultura sapiente o filosofica. Il cinema resta per me un grande godimento celato, segreto, avido, goloso, e dunque infantile.
[…] Il cinema per sua stessa definizione (una proiezione in sala) richiama il collettivo, lo spettacolo, l’interpretazione comunitaria. Ma, nello stesso tempo, esiste una fondamentale assenza di relazioni: nella sala, ogni spettatore è solo… È questo che mi rende sovente scontento a teatro, e contento al cinema: il poter essere solo di fronte allo spettacolo […] E senza dubbio è per questo che amo tanto il cinema, e che il cinema mi è, in un certo senso, anche quando ci vado poco, indispensabile.
[…] La percezione cinematografica non ha equivalenti, ma è la sola a poter far comprendere per via d’esperienza che cos’è una pratica psicoanalitica: ipnosi, fascinazione, identificazione, tutti questi termini e queste procedure sono comuni al cinema e alla psicoanalisi […] D’altronde, una seduta di cinema non è che un poco più lunga di una seduta di analisi. Si va al cinema a farsi analizzare, lasciando apparire e parlare tutti i suoi spettri. Si può, in maniera economica (in rapporto a una seduta di analisi), lasciare che gli spettri ritornino sullo schermo.

Jacques Derrida

 

 

 

 

mappamondi

 

 

 

 

spettri di woody

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