aria di famiglia

 

 

nonno-achille

 

 

L’aria di un volto non è scomponibile […] L’aria non è un dato schematico, intellettuale, come lo è invece una silhouette. E non è neppure una semplice analogia – per quanto spinta possa essere – come lo è la “somiglianza”. No, l’aria è quella cosa esorbitante che si trasmette dal corpo all’anima – animula, piccola anima individuale, buona nel tale, cattiva nel talaltro.
[…] L’aria (chiamo così, in mancanza di meglio, l’espressione della verità) […] esprime il soggetto in quanto non si dà importanza. Su questa foto di verità, la persona che amo, che ho amato, non è separata da se stessa: finalmente coincide.
[…] L’aria è dunque l’ombra luminosa che accompagna il corpo; e se la foto non riesce a palesare quest’aria, allora il corpo va avanti senz’ombra, e una volta che quest’ombra sia stata separata dal corpo, come nel mito della Donna senza Ombra, non resta altro che un corpo sterile.
[…] Io sono stato fotografato centinaia di volte; ma se nessuno di quei fotografi è stato capace di “centrare” la mia aria (e forse, dopotutto, non ce l’ho) la mia effige perpetuerà (per il tempo, del resto limitato, che dura la carta) la mia identità, non il mio valore.
Se è applicato a chi si ama, questo rischio è straziante: io posso essere frustrato a vita dall’«immagine vera».

Roland Barthes

 

 

 

 

proletar

Majakovskij è un monumento vivente, un gladiatore. Guardate le bozze frontali, le occhiaie, guardate gli zigomi, guardate le mascelle. È un russo? No. È un operaio. In questa faccia i proletari di tutto il mondo, più che unirsi, si sono unificati, si sono fusi in un unico sembiante. È un viso collettivo, come quel nome. Un nome anonimo. Una persona impersonale. Come vi sono facce che recano impresso il marchio dell’avventura internazionale, così questo volto è il marchio stesso del Proletariato, questa faccia il Proletariato dovrebbe stamparla sui propri francobolli, imprimerla sulle proprie monete.

Marina Cvetàeva

 

 

 

Second Life

 

 

– […] In breve, noi ne saremmo sazi, noi ne avremmo abbastanza (satis, saturazione, satira), se capisco bene, ne avremmo abbastanza di ereditare insomma o, ma è la stessa cosa, di lasciare in eredità. Quanto ad ereditare, la questione oggi è una sola, non ne vedo altre: sapere se – e con quale diritto, all’origine e alla fine del diritto – sapere se tu sopravviverai agli altri, ossessionerai, perseguiterai, inseguirai, ti accanirai sugli altri. Sapere se, e in fondo con quale diritto, sovraccaricherai gli altri, diventati i “tuoi”, con la tua morte, con il lutto del tuo corpo incenerito o sepolto, con la tua veste funebre, fino alla fine presunta dei tempi, con l’impronta del tuo volto sul lino di un sudario, fino alla fine dei tempi. Come qualc-uno da sempre avrà già fatto.

– Rompere con questo Uno senza lasciare tracce, neppure la traccia di una partenza, neppure il marchio di una rottura, ecco la sola decisione possibile, ecco il suicidio assoluto e il senso primo che può esserci nel lasciar vivere l’altro, lasciarlo essere, senza neppure trarre il minimo beneficio da questo ritrarsi del velo o del sudario […] Non lasciare loro neppure le mie ceneri. Benedizione di chi parte senza lasciare indirizzo.

Jacques Derrida

 

Non c’è una sola istituzione alla quale io voglia lasciare qualcosa. Ma nemmeno una persona tra quelle che conosco. Così ho deciso di farmi mandare un elenco telefonico di Londra…Ho aperto una pagina a caso, dopo aver constatato che era la pagina duecentotre ho premuto, con gli occhi chiusi, l’indice della mano destra su un punto. Quando ho aperto gli occhi e ho guardato da vicino, ho visto che la punta del mio dito premeva sul nome Sarah Slother. Non m’importa niente di chi sia questa Sarah Slother, disse, l’indirizzo è Knightsbridge 128. A questo indirizzo, chiunque o qualunque cosa ci si nasconda dietro, lascio tutto quello che ho… Se ci riflettiamo bene, non possiamo proprio lasciare qualcosa a nessuna delle persone che conosciamo, disse. Almeno io.

Thomas Bernhard

 

Siamo partiti nella vita con i consigli dei genitori. Non hanno retto dinnanzi all’esistenza. Siamo piombati in pasticci uno più tremendo dell’altro. Siamo venuti fuori alla bell’e meglio da conflagrazioni funeste, più o meno di traverso, come granchi bavosi, a dietro culo, qualche zampa in meno: Delle volte ci siamo divertiti, bisogna essere giusti, anche con la merda, ma sempre in preda all’inquietudine che le porcate ricomincino… E sono ricominciate sempre… Ricordiamoci un po’! Si parla delle illusioni, che perdono la gioventù: Noi l’abbiamo perduta senza illusioni la gioventù!… E ancora storie. 

L.-F. Céline

 

Ah che uomo senz’ombra di genio! Era purtroppo, qui da noi, l’unico architetto, col risultato che negli ultimi quindici o vent’anni, a quanto ricordo, la nostra città non ha veduto venir su una sola costruzione come si deve. Quando gli ordinavano un progetto, lui di solito tracciava anzitutto il salone e il salotto: come, nei tempi andati, le allieve dei collegi sapevan danzare soltanto a partir dalla stufa, allo stesso modo la sua concezione artistica poteva venir fuori e svilupparsi soltanto dal salone e dal salotto. A questi egli andava aggiungendo il disegno della stanza da pranzo, di quella dei bambini, del gabinetto da studio, facendo comunicar le camere a forza d’usci, cosicché tutte inevitabilmente venivano a prender l’aspetto di locali di passaggio, e in ciascuna c’erano un paio o anche tre porte in soprappiù. Evidentemente, l’idea direttrice era in lui poco chiara, arruffata all’estremo, di fiato ben corto: ogni volta, come se avesse il senso che qualcosa non andava, ricorreva ai più svariati accessori, appiccicandoli uno a ridosso dell’altro, sicché dovunque io mi vedo intorno ingressetti angusti, angusti corridoietti, scalettine sbieche, che metton capo a certi ammezzati, in cui non si può stare che rannicchiati, e al posto del piancito ci son tre enormi scalini, simili a quei banchi dei bagni turchi; e la cucina, poi, senza fallo è sotto alla casa, col soffitto a volta e col piancito di mattoni. La facciata ha sempre un’espressione dura, arcigna; le linee son secche, incerte; il tetto basso, piatto: e sui massicci camini non c’è caso che manchino i loro bravi cappelli di fil di ferro, con tanto di nere, cigolanti banderuole. Insomma, non so come, tutte codeste case costruite da mio padre, così somiglianti una all’altra, mi rammentavano vagamente il suo cilindro, la sua nuca magra e dura. In città, col passar del tempo, alla poca genialità di mio padre ci han fatto l’occhio, ed essa ha messo radice ed è diventata lo stile del luogo.

Anton Cechov

 

 

Casa unifamiliare, Morbio Superiore, Svizzera (architetto: Mario Botta)

La casa si trova in una condizione particolare: non si tratta più di un terreno residuo tra altri lotti costruiti precedentemente, ma di un terreno particolarmente interessante sito al limite di una collina. Si è tentato di far diventare la casa una cerniera, un punto di articolazione tra la pianura e il grande pendio della collina stessa. Resta qui l’idea di ritagliare le forme all’interno del volume come uno scoiattolo e l’idea di far sì che la casa entri come un coltello nella collina offrendo solo il piano alto come momento di ingresso. La facciata verso valle invece vuole appartenere più al paesaggio che alla casa stessa. Per questo è una facciata concava che raccoglie e fa vibrare la luce della giornata in momenti diversi. Ad essa sono contrapposti due elementi, il taglio superiore come elemento di rapporto con il cielo, che penetra profondissimo lungo tutto il corpo edilizio, e il grande taglio inferiore della terrazza triangolare che crea un gioco tra la luce e l’oscurità, una idea di caverna. Il movimento di questa facciata nelle diverse ore della giornata è un gioco che si ripete creando una ricchezza di situazioni che io non avrei mai immaginato. Al tramonto per esempio, quando c’è un impoverimento della luce e le case perdono spessore, questa casa ha qualche minuto in più di luce, qualche minuto di vita in più rispetto alle case della collina e della valle sottostante: e questo può rappresentare un esempio delle piccole soddisfazioni che l’architetto può ricevere dal proprio lavoro.
Mario Botta (architetto)

 

 

La precisione con cui lo svizzero aveva progettato la sua casa aveva stupito Moritz, questo disegno si era distinto dagli altri progetti edilizi come si usano qui non solo per l’originalità addirittura audace, si era evidenziato per la massima precisione. Ogni linea e ogni segno e ogni numerazione erano la prova che una testa svizzera, ma proprio assolutamente svizzera, aveva disegnato quel progetto. Si capiva subito dal disegno del progetto che si trattava di un progetto disegnato da un uomo che sentiva e pensava solo con sentimenti ostinati al massimo grado e totalmente egoistici. Nemmeno la più piccola traccia di un’influenza femminile.
Thomas Bernhard, “Sì”

 

 

rilkeHeinrich Vogeler, Maimorgen, Worpswede, 1900 (disperso)

Das Haus

Leis steht das Haus vor seinem letzten Sterne,
den die vergangne Nacht hinunterzieht.
Doch seine Fenster sind schon voller Ferne,
voll eines Morgens, welcher groß geschieht.
Zukünftiges und Weites im Gesicht –
so steht das Haus im noch nicht wachen Garten, –
und seine Stufen, die auf Wunder warten, –
täuschen sich nicht …

[Calma sta la casa davanti alla sua ultima stella
caduta dalla notte appena trascorsa.
Ma le sue finestre sono già in piena lontananza,
piene di un mattino dove qualcosa di grande accade.
Cose future e lontane nel volto –
così sta la casa nel giardino non ancora sveglio, –
e i suoi gradini, che attendono il miracolo, –
non si ingannano…]

Rainer Maria Rilke (Worpswede, 31.10.1900)

 

 

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Le donne di casa

[…] Das menschliche Gesetz also in seinem allgemeinen Dasein, das Gemeinwesen, in seiner Betätigung überhaupt die Männlichkeit, in seiner wirklichen Betätigung die Regierung, ist, bewegt und erhält sich dadurch, daß es die Absonderung der Penaten oder die selbstständige Vereinzelung in Familien, welchen die Weiblichkeit vorsteht, in sich aufzehrt, und sie in der Kontinuität seiner Flüssigkeit aufgelöst erhält. Die Familie ist aber zugleich überhaupt sein Element, das einzelne Bewußtsein allgemeiner betätigender Grund. Indem das Gemeinwesen sich nur durch die Störung der Familienglückseligkeit und die Auflösung des Selbstbewußtseins in das allgemeine sein Bestehen gibt, erzeugt es sich an dem, was es unterdrückt und was ihm zugleich wesentlich ist, an der Weiblichkeit überhaupt seinen innern Feind. Diese – die ewige Ironie des Gemeinwesens – verändert durch die Intrige den allgemeinen Zweck der Regierung in einen Privatzweck, verwandelt ihre allgemeine Tätigkeit in ein Werk dieses bestimmten Individuums, und verkehrt das allgemeine Eigentum des Staats zu einem Besitz und Putz der Familie. Sie macht hiedurch die ernsthafte Weisheit des reifen Alters, das, der Einzelnheit – der Lust und dem Genusse, sowie der wirklichen Tätigkeit – abgestorben, nur das Allgemeine denkt und besorgt, zum Spotte für den Mutwillen der unreifen Jugend, und zur Verachtung für ihren Enthusiasmus; erhebt überhaupt die Kraft der Jugend zum Geltenden – des Sohnes, an dem die Mutter ihren Herrn geboren, des Bruders, an dem die Schwester den Mann als ihresgleichen hat, des Jünglings, durch den die Tochter ihrer Unselbstständigkeit entnommen, den Genuß und die Würde der Frauenschaft erlangt.

G.W. F. Hegel

[…] La legge umana dunque, nella sua esistenza universale (la comunità), nella sua attività principale (il maschio), nella sua attività effettiva (il governo), esiste, si muove e si conserva consumando al proprio interno la segregazione dei Penati – cioè la singolarizzazione in famiglie indipendenti, dirette dal femminile – e mantenendole dissolte nella continuità del proprio fluire. La famiglia è però anche e soprattutto l’elemento della legge umana, il fondamento della coscienza singola nel suo agire universale. Quindi la comunità, mentre si dà consistenza solo attraverso la distruzione della felicità familiare e la dissoluzione dell’autocoscienza nell’universale, produce in ciò che opprime e che le è in pari tempo essenziale – la femminilità in generale –   il proprio nemico interno. Costei – l’eterna ironia della comunità – trasforma con i propri intrighi il fine universale del potere in un fine privato, inverte la sua attività universale nell’opera di un particolare individuo, converte la proprietà comune del governo in un possesso e un vanto della famiglia. Ella trasforma la pensosa saggezza dell’età matura (che, morta al piacere, al godimento, all’effettiva attività del singolo, pensa e si cura solo dell’universale) in oggetto di scherno per l’audacia dell’immatura giovinezza, e di disprezzo per il suo entusiasmo; la donna eleva a valore prevalente la forza della giovinezza – del figlio, in cui la madre ha generato il proprio signore; del fratello, nel quale la sorella ha il maschio come suo eguale; del giovanotto, mediante il quale la figlia, sottratta alla propria dipendenza, consegue il godimento e la rispettabilità della condizione di moglie.

 

 

Émile Jean Horace Vernet, Napoleone a Jena

[…] Le armi cominciarono a sparare, da una parte e dall’altra: erano le nove del mattino, non ci si vedeva di qui a lì, e francesi e tedeschi facevano fuoco davanti a loro a casaccio, nella nebbia. Ma quando il sole a poco a poco forò la nebbia, i due schieramenti si ritrovarono l’uno addosso all’altro: da una parte gli indecisi prussiani, impreparati ad una battaglia per quel giorno; dall’altra i francesi che «manovravano come ad una parata». Napoleone aveva dato ordini ben precisi: attaccare arditamente tutto ciò che è in marcia, non dare al nemico la possibilità di riunirsi e di riorganizzarsi, approfittare di tutti gli sbagli o gli equivoci dell’avversario, non lasciarlo fermare, non combattere da fermi, adottare la tattica del movimento perpetuo. Sulle alture di Jena, l’anima del mondo calava l’hegelismo nella strategia militare. Alla fine della giornata il re di Prussia cercava scampo in una disperata fuga attraverso i campi, i soldati prussiani si disperdevano in disordine per tutta la campagna, migliaia e migliaia di prigionieri coperti di sangue sfilavano disfatti dinnanzi all’imperatore. Napoleone tornò a Jena che era già notte. Murat e Rapp correvano al gran galoppo verso Weimar, superando di volo i resti di ventotto squadroni e ventisei battaglioni prussiani accorsi troppo tardi sul teatro della battaglia […] I due francesi avrebbero voluto acciuffare la regina, che Napoleone considerava la causa della guerra. Ma la regina era scappata da qualche ora, in lacrime. Non rimaneva che la vecchia duchessa. Ci fu qualche confusione nel palazzo, all’arrivo dei francesi, ma durò poco. Scossa, ma fierissima, la vecchia signora accolse con apparente serenità i due ufficiali francesi ed educatamente li invitò a cena. I due accolsero l’invito. Goethe, che aveva appena finito di scrivere il Faust e faceva anche lui il tifo per Napoleone, annotava: «la nobildonna è stata di una ammirevole dignità».
Tra gli incendi, in mezzo alle grida dei soldati francesi ormai dediti al saccheggio più sfrenato, la città di Jena passava l’ultima notte di grande paura. Dall’alto dell’abbaino in cui li aveva messi lo zelante ma beffardo Glaber, il professore e Cristiana Burckardt avevano smesso di guardare atterriti le stragi e le devastazioni. Avevano chiuso la finestra, tirate le tendine, stavano entrambi sul letto, e si stringevano disperatamente. «L’amore», aveva scritto qualche anno prima il professore, «è più forte della paura… L’amore è un reciproco prendere e dare. Timoroso che i suoi doni possano venir scherniti, timoroso che un opposto non voglia cedere al suo prendere, esso cerca di far la prova per vedere se la speranza non lo ha ingannato… Ciò che più intimamente è proprio si unifica nella carezza, nel contatto sensuale, fino a smarrire la coscienza: e un embrione di immortalità si è fatto». Nove mesi dopo Cristiana Burckardt partoriva un figlio illegittimo di Hegel, lo chiamava Ludwig, e gli dava il suo cognome di zitella, Fischer. II professore era già da molti mesi a Bamberga; per nessuna ragione sarebbe mai più tornato indietro, a quell’abbaino alto sopra gli incendi, a quella donna che ora gli sembrava opaca e spudorata. Cominciava quella che Lukàcs ha chiamato «la tragedia tedesca».
Valerio Riva

 

 

La madre e il suo signore

nozze

Marten de Vos, Le nozze di Cana (1596), Cattedrale di Anversa

Von der Hochzeit zu Kana

Konnte sie denn anders, als auf ihn
stolz sein, der ihr Schlichtestes verschönte?
War nicht selbst die hohe, großgewöhnte
Nacht wie außer sich, da er erschien?

Ging nicht auch, dass er sich einst verloren,
unerhört zu seiner Glorie aus?
Hatten nicht die Weisesten die Ohren
mit dem Mund vertauscht? Und war das Haus
nicht wie neu von seiner Stimme?

Achsicher hatte sie zu hundert Malen
ihre Freude an ihm auszustrahlen
sich verwehrt. Sie ging ihm staunend nach.

Aber da bei jenem Hochzeitsfeste,
als es unversehns an Wein gebrach, –
sah sie hin und bat um eine Geste
und begriff nicht, dass er widersprach.

Und dann tat er’s. Sie verstand es später,
wie sie ihn in seinen Weg gedrängt:
denn jetzt war er wirklich Wundertäter,
und das ganze Opfer war verhängt,
unaufhaltsam. Ja, es stand geschrieben.

Aber war es damals schon bereit?
Sie: sie hatte es herbeigetrieben
in der Blindheit ihrer Eitelkeit.

An dem Tisch voll Früchten und Gemüsen
freute sie sich mit und sah nicht ein,
dass das Wasser ihrer Tränendrüsen
Blut geworden war mit diesem Wein.
Rainer Maria Rilke, “Das Marienleben”

[Come avrebbe potuto non essere fiera di lui
che abbelliva per lei le cose più umili?
Non era uscita di senno persino l’alta notte
avvezza alla grandezza, quando egli apparve?

E quella volta che lui si smarrì,
non portò poi ancora alla sua inaudita gloria?
Non avevano i più sapienti chiuso la bocca,
aperto le orecchie? Non fu come nuova
la casa al suono della sua voce?
Ah certo, si era cento volte trattenuta
dal manifestargli la sua gioia.
Lo seguiva stupita.

Ma ora a quella festa nuziale
quando all’improvviso mancò il vino, –
lo guardò e lo pregò con un gesto
e non comprese che lui non voleva.

Ma poi lo fece. Lei lo capì più tardi
di averlo spinto sul suo cammino:
perché ora era davvero un taumaturgo
e l’intero sacrificio era decretato,
inarrestabile. Sì, come era scritto.

Ma allora era questo già deciso?
Lei: lei lo aveva provocato
nella cecità del suo orgoglio.

Alla tavola colma di frutti e di erbe
lei gioiva con gli altri e non si avvide
che l’acqua delle sue lacrime
si trasformava in sangue insieme a quel vino]

 

 

Miniatura in tempera e oro da un Libro d’Ore
composto a Besançon, in Francia, nel 1450
circa, Fitzwilliam MS 69 folio 48r,The Nativity,
Fitzwilliam Museum, Cambridge, Inghilterra

 

 

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Johann Heinrich Füssli, Brunhilde beobachtet Gunther, Castle Museum, Nothingham

Il diritto delle genti maggiori consisteva nel costume da essi avuto dell’usare privatamente la forza, onde gli uomini che fuori di ogni legge vivevano, pigliavano manescamente le cose che loro abbisognavano [usu capiebant] adoperando la forza per conservarsele. Quindi mancipia erano le cose materialmente con forzosa mano pigliate; […] le usurpazioni erano i rapimenti al fine di avere in possesso e di usare le cose rapite. Così le uxores usurariae, le femmine che erano in possesso dei viri, ma sulle quali questi non avevano ancora il diritto di podestà, usurpavano il trinoctium, cioè impedivano ai viri per tre successive notti l’uso della lor persona, al fine di non passare definitivamente in lor mano, ovvero nella lor podestà, per il diritto dell’annua occupazione.
Giambattista Vico

 

 

 

[…] Questo accade, io credo, perché sono stanche. Per secoli hanno eseguito loro tutto l’amore, hanno sempre recitato l’intero dialogo, le due parti insieme. L’uomo ha solo ripetuto, e male. […] E da loro, sotto la pressione di infinite pene, sono uscite le amanti colme di forza che, mentre invocavano l’uomo, lo superavano; che crescevano oltre lui quando non tornava, come Gaspara Stampa o come la Portoghese, che non desistevano fino a quando il loro tormento si convertiva in una padronanza dura e gelida, non più sopportabile. Sappiamo di questa e di quella perché ci sono lettere, conservate quasi per miracolo, o libri di poesie che accusano o lamentano, o ritratti che in una galleria ci guardano attraverso un pianto, riuscito al pittore perché non sapeva che cosa fosse. Ma ce ne sono state infinitamente di più; quelle che hanno bruciato le loro lettere, e altre che non avevano più la forza di scriverle. Vecchie, che erano indurite con un nocciolo di squisitezza dentro di sé, che nascosero. Donne divenute informi e grosse che, ingrossate per esaurimento, si lasciavano diventare simili ai loro mariti e tuttavia erano tanto diverse all’interno, là dove aveva operato il loro amore, nel buio. Partorienti che non volevano mai partorire, e quando morivano all’ottavo parto avevano i gesti e la leggerezza di fanciulle felici di accostarsi all’amore. E quelle che rimasero accanto a violenti e ubriaconi, poiché avevano trovato il modo di essere dentro di sé tanto lontane da essi quanto in nessun altro luogo; e quando andavano tra la gente non potevano nasconderlo e rilucevano come se avessero sempre a che fare con i santi. Chi può dire quante e quali furono. È come se avessero annientato in anticipo le parole con cui potremmo capirle.
Rainer Maria Rilke, “I quaderni di Malte Laurids Brigge”

 

 

 

 

 

 

Non al denaro non all’amore nè al cielo

Bosch

Jeronimus Bosch, Il figliol prodigo, Museo Boysman, Amsterdam

Sarà difficile convincermi che la storia del figliol prodigo non sia la leggenda di colui che non volle essere amato. Quando era un bambino, tutti in casa lo amavano. Cresceva, non conosceva altro e si abituò alla tenerezza dei loro cuori, poiché era un bambino.
Ma da ragazzo volle deporre le sue abitudini. Non avrebbe saputo dirlo, ma quando restava fuori a vagabondare per tutto il giorno e non voleva più avere con sè neppure i cani, era perché anch’essi lo amavano; perché nei loro sguardi c’erano osservazione e partecipazione, attesa e apprensione; perché anche dinanzi a loro non si poteva fare nulla senza rallegrare o mortificare. E ciò che allora voleva era l’intera indifferenza del suo cuore, che talvolta, all’alba, nei campi, lo afferrava con tale purezza che egli cominciava a correre per non avere più tempo né fiato, per non essere più che un leggero istante nel quale il mattino prende coscienza.

[…] Solo che poi c’era la via del ritorno […] Così, non gli serve a nulla  salire le scale con indicibile cautela. Saranno tutti in salotto, e basta che la porta si apra perché guardino da quella parte. Egli resta nell’oscurità, sta aspettando le loro domande. Ma poi viene il peggio. Lo prendono per mano, lo tirano verso la tavola, e tutti quanti si allungano curiosi dinanzi alla lampada. Hanno buon gioco, restano in ombra, e su di lui solo cade con la luce tutta la vergogna di avere un volto […]

Rimarrà e continuerà a fingere la vita approssimativa che gli attribuiscono, e con tutto il suo volto diventerà simile a loro? […]

No, se ne andrà […] Solo molto più tardi gli diverrà chiaro con quanta decisione si sia prefisso allora di non amare mai, per non porre nessuno nella situazione terribile di essere amato. Anni dopo gli ritorna in mente, e come altri propositi anche questo è stato impossibile. Perché egli ha amato e amato ancora nella sua solitudine; ogni volta con sperpero di tutta la sua natura e con indicibile angoscia per la libertà dell’altro.
Rainer Maria Rilke, “I quaderni di Malte Laurids Brigge”

 

 

[…] questo uomo costantemente perseguitato, che si crede una nullità, che sulla carta ha un fratello e una sorella e altre persone, ma che in verità è sempre stato solo, che è stato solo in modo ancor molto più miserevole di quanto non si possa desumere dal mio resoconto, solo com’è sola una mosca che d’inverno si trovi nella stanza di uno che vive in una grande città, una mosca inseguita da costui e dai suoi figli e infine schiacciata contro un muro quando quelle persone credono di sentirsi perseguitate da quella mosca, irritate, aggredite nel modo più inaudito, si radunano nella loro abitazione e decidono di far fuori quella bestiaccia, come dicono nella loro esaltazione, di far fuori quel mostro! che gli appesta quella sera di festa – senza sapere che cosa sia una mosca e che cosa avvenga dentro di lei, specialmente in una mosca che d’inverno si trovi in una stanza di una grande città.
Thomas Bernhard, “Gelo”

 

 

Lo zio Toby era un uomo che sopportava le ingiurie, ma non per mancanza di coraggio: vi ho detto nel quinto capitolo di questo secondo libro “che era un uomo coraggioso”. E aggiungerò qui che, laddove se ne presentasse l’occasione o la necessità, — non conosco altro uomo sotto il cui braccio mi sarei rifugiato volentieri. La sua mancanza di reazione non derivava da insensibilità, o da ottusità delle sue funzioni intellettuali, — dato che questo insulto di mio padre era cocente per lui come per qualsiasi altro uomo sensibile, — ma la sua era una natura placida e pacifica, non vi erano in lui elementi discordanti, tutto era così gentilmente fuso nel suo animo: lo zio Toby non avrebbe fatto del male a una mosca.
– Vai pure – disse infatti una sera, a cena, rivolto a una mosca enorme, che gli aveva ronzato intorno al naso per tutto il pasto e che, dopo infiniti tentativi, aveva finalmente acchiappata; – vai, non ti farò del male – e si alzò attraversando la stanza con la mosca in mano – non ti torcerò un capello, va’; – e alzò lo scorrevole della finestra aprendo la mano per farla fuggire; – va’, poverina, ti lascio andare, perché dovrei farti del male? Questo mondo è certamente grande abbastanza per ospitare sia me che te.
Non avevo che dieci anni quando ciò accadde. Può darsi che quel gesto rispondesse in modo particolare ai miei sentimenti di quella età delicata; il fatto è che immediatamente, mi sentii tutto vibrare per la più dolce delle commozioni. Non so se furono quelle maniere e quelle espressioni, – e in quale misura, e per quale magico segreto, – la modulazione della voce, l’armoniosità dei movimenti – che riuscirono a trovare la strada del mio cuore, non lo so; so soltanto che la lezione di benevolenza universale insegnatami da lui ed impressa nella mia mente in quel momento non vi è stata più cancellata. E sebbene io non sottovaluti l’effetto che ebbe su di me, sotto questo rispetto, all’università, lo studio delle Literae Humaniores, né screditi i vantaggi della costosa educazione impartitami sia a casa che fuori, pure penso spesso che devo una metà della mia filantropia a quell’incidente.
►Questo serva a genitori e educatori, meglio di un intero volume sull’argomento.
Laurence Sterne, “La vita e le opinioni di Tristam Shandy”

 

Fuori piove. Fuori la gente cammina sotto la pioggia a testa bassa, riparandosi gli occhi con la mano, vedendo appena davanti a sé, qualche metro davanti a sé, qualche metro d’asfalto bagnato. Qui la pioggia non entra, né la neve, né il vento; e la polvere fine che vela le superfici levigate orizzontali, dal legno lucidato del tavolo all’impiantito tirato a cera, al marmo del caminetto, a quello, incrinato, del cassettone, questa polvere viene dalla stanza stessa, dalle fessure dell’impiantito, o dal letto, o dalla cenere del caminetto, o dalle tende di velluto che salgono in pieghe verticali fino al soffitto, dove l’ombra della mosca, simile per forma al filo incandescente della lampadina nascosta dal paralume a tronco di cono, passa ora in vicinanza della sottile linea scura, che trovandosi in penombra, e a quattro o cinque metri di distanza,  è d’osservazione molto aleatoria: un primo segmento rettilineo, lungo meno d’un centimetro, seguito da una serie di rapide ondulazioni, guarnite esse stesse di festoni minuscoli, che… Ma la vista si confonde a voler seguire con precisione questi contorni, come quelli del disegno troppo fine che orna la carta dei muri, o i limiti troppo incerti dei lucidi sentieri disegnati nella polvere dalle pantofole di feltro, o, varcata la porta della stanza, l’anticamera buia dove l’ombrello dal fodero di seta nera è appoggiato obliquamente contro l’attaccapanni, e poi, varcata la porta dell’alloggio, la serie dei lunghi corridoi, la scala a spirale, il portone dello stabile con la sua soglia di pietra, e tutta la città dietro di me.
Alain Robbe-Grillet, “Nel labirinto”

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