più di una voce

Que tot hom hi fos lliure anant e vinent, crestià e jueu e sarraí

Che tutti gli uomini siano liberi
di andare e di venire
cristiani e ebrei e saraceni

(soffitto dell’ingresso della Presidenza del Governo delle Isole Baleari,
Plaça de la Dressana, Palma di Maiorca)

 

 

lulloW

L’esistenza è una fiamma che fonde e ricompone incessantemente le nostre teorie; il pensiero esistenziale non offre alcuna garanzia, alcun rifugio ai senza tetto, non si rivolge a nessun altro all’infuori che a te e a me. E trova la sua validità quando, attraverso il baratro dei nostri linguaggi e stili diversi, i nostri errori, i torti, le perversità, scopriamo nel comunicare con un altro l’esperienza di un rapporto umano che si stabilisce, si smarrisce, va perduto, si raggiunge di nuovo. Noi speriamo di condividere l’esperienza di un rapporto umano, ma l’unico modo onesto di incominciare, o anche di finire, sarebbe quello di condividere l’esperienza della sua assenza.

Ronald Laing

 

Nella vita io porto il cuore di bronzo,
ma se vi è una cosa che mi indebolisce,
che mi fa struggere, è l’amore per Napoli.
(Matilde Serao, Lettera a Febea)

 

Naples, with its three thousand years of history, is the perfect setting for the street art of Ernest Pignon-Ernest…
Artwork featured in this video include:
David et Goliath d’apres Caravage, Naples, 1988
Sans titre, Naples, 1988
La Pieta d’apres Ribera, Naples, 1988
Resurrection, Naples, 1988
Christ a la colonne d’apres Caravage, Naples, 1990
Mise au Tombeau d’apres Caravage, Naples, 1990
Sans titre, Naples, 1990
Les Ames du purgatoire, Naples, 1990
Crucifixion et suaire de Turin, Naples, 1995
Mort de la Vierge d’apres Caravage, Naples, 1990
La Veilleuse de la Mort de la Vierge, Antonietta, Naples, 1995
Marie-Madeleine, Naples, 1990
Sainte Agathe, Naples, 1995
Sainte Agathe, inpire de Guarino, Naples, 2003

The background music is
Wandering Eyes
by Wim Mertens Ensamble

 

 

cruciverba

 

 

ACTION!

 

 

Scrivendo nel 1771 ai suoi superiori a proposito della frontiera appalachiana e dell’impossibilità di trattenere i coloni scotto-irlandesi a est del confine virtuale che seguiva la dorsale delle montagne, l’ultimo governatore della Virginia, il conte di Dunmore, spiegò:
«Mio Signore, ho capito con l’esperienza che l’Autorità costituita di un qualsivoglia governo in America e la politica del Governo in patria sono entrambe impotenti a contenere gli americani e che la loro avidità e irrequietezza li spingeranno comunque a muoversi. Non sviluppano alcun legame con il luogo, sembra piuttosto che nella loro natura abbia attecchito il vagabondaggio. L’immaginare che le Terre lontane siano ancora più belle di quelle in cui si sono appena stabiliti è diventato una tara […] non concepiscono un Governo che abbia il diritto di impedire loro di impossessarsi di una vasta estensione del Paese, foss’anche disabitata o rifugio di una manciata di tribù indiane. Queste idee, mio Signore, vorrei fosse ben chiaro, io non le giustifico. Credo semplicemente sia mio dovere presentare i fatti per come sono».
Sam Shepard

 

 

La rivoluzione cubana
secondo Hikmet

conga

 

Batista era lo schiavo del re dei serpenti
dei milionari della canna da zucchero, indigeni o yankee,
di quelli del caffè, del tabacco, indigeni o yankee,
di un’armata di cinquantamila soldati coi carri armati
e gli aeroplani e le caserme
che uccidevano i valorosi
battendoli a morte
dopo averli castrati e accecati
delle porte dei commissariati
davanti imputridivano
i cadaveri rovesciati sul dorso
dei clamori che laceravano
le mura dei commissariati
dibattendosi come uccelli feriti
nelle notti calde
dei preti franchisti delle bische dei grossisti di eroina
dei gangster indigeni o yankee
delle puttane
quindicimila all’Avana soltanto
di quello che marcisce ributtato sulla riva del mare,
Batista, il generale dei fetori di cadavere
mescolati all’odore pesante dolciastro dei fiori,
nel suo popolo di sei milioni
quattro milioni di affamati
un milione di tubercolosi
Batista era lo schiavo dell’ambasciatore
degli Stati Uniti a Cuba
in dieci anni s’era assicurato
un miliardo di dollari
era lo schiavo del dollaro
degli Stati Uniti d’America
delle forze armate degli Stati Uniti d’America.
Nell’ottobre 1956
ottantadue persone, compreso Fidel,
scesero in acqua dalla nave Granma
avanzatasi fin sotto la costa
scesero tenendo le armi sopra la testa
immersi in acqua fino alla cintola
uscirono sulla riva sotto il fuoco delle mitragliatrici
aperto in un istante
evitando la luce dei proiettori che frugavano fiutavano il buio
come cani poliziotti
schiacciando sotto i passi le grosse rane e le grida
di “siete circondati! arrendetevi!”
per tuffarsi negli stagni tra le canne da zucchero
per arrampicarsi sulle colline
tra i palmizi e le noci di cocco;
si ritrovarono sui monti della Sierra
in dodici vivi, compreso Fidel,
degli ottantadue
nel novembre 1956 eran dodici, compreso Fidel,
nel dicembre 1956 erano centocinquanta, compreso Fidel,
nel febbraio 1957 erano cinquecento, compreso Fidel,
poi furono mille, compreso Fidel, cinquemila, compreso Fidel,
furono un milione, cento milioni, l’umanità intera,
e nel gennaio 1959
sbaragliarono Batista
e l’armata dei cinquantamila
e i milionari dello zucchero indigeni e yankee
e i milionari del caffè del tabacco indigeni e yankee
e le caserme e i commissariati dove marcivano i cadaveri
e i grossisti di eroina e le bische
e l’ambasciatore degli Stati Uniti d’America
e le forze armate di terra di mare d’aria
degli Stati Uniti d’America
e il fetore dei cadaveri
mescolato all’odore pesante dei fiori
si disperse
si disperse la paura
degli Stati Uniti d’America.


Il calore mi si appiccica al dorso come una maglia
inzuppata di sudore
dal 24° piano dell’albergo ascolto la città di notte
annega nelle canzoni
canzoni nella terra, la pietra, la foglia
canzoni nella terra la pietra la foglia come il calore vibrante
canzoni nell’aria come ad esempio l’azoto
canzoni, polpa di frutti buccia nocciolo di frutti
canzoni, odore di fiori
canzoni, la Spagna, l’Arabia, l’Africa
canzoni negli occhi delle donne sui loro fianchi
canzoni, la mani calde degli uomini
canzoni, i piedi, la vita, le spalle, le danze.
Scendo in ascensore nel vestibolo
nell’ascensore giovani contadine della provincia orientale
dei villaggi di Bayamo
son venute in città per imparare il cucito
nell’albergo Havana Libre stanno in appartamenti
pieni d’ombre dei milionari
prima l’albergo si chiamava Hilton,
ventiquattro milioni di dollari;
nell’ascensore ragazze della provincia di Bursa
dei villaggi dell’Anatolia
che ci fate ragazze, come mai vi hanno lasciato entrare
nell’albergo Hilton?
mi dicono che Hilton non è più Hilton, da tempo si chiama
Istanbul Libera
e loro ridono mettendo la mano davanti alla bocca:
anche gli aghà son fuggiti con gli americani.
E la terra?
La terra ce la siamo divisa.

Vado a zonzo per le vie dell’Avana
confondo gli uni con gli altri gli alberi sull’asfalto
non c’è modo di distinguere le macchine dalla strada asfaltata
la pioggia dal sole
le nuvole bianche dalle piscine celesti
confondo i frutti e le donne
i bambini che vanno a scuola e la libertà.
In questa città, è impossibile separare la libertà dalla gente
confondo i fucili mitragliatori e le porte, quelle coi colonnati,
quelle senza, quelle di ferro, di legno, di vetro,
grandi e piccole, tutte le porte delle strade le confondo coi fucili
confondo le barricate fatte di sacchi di sabbia e l’Atlantico
non c’è modo di distinguere l’orizzonte che aspetta al varco la sagoma
delle portaerei americane
dalle barricate fatte coi sacchi di sabbia
confondo le madri contadine col palazzo della presidenza
confondo i mausolei le statue i busti di Josè Martì
con le fotografie di Fidel
confondo Fidel con le canzoni, l’Internazionale col ch-cha-cha
la conga con Fidel
somos socialistas adelante adelante.

Confondo Fidel con le centomila persone che sulla piazza
allineandosi una dietro l’altra e mettendosi le mani sulle spalle
danzano la rumba
non c’è modo di distinguere Fidel dall’Avana
m’imbatto in Marx sulla copertina dei libri tra gli ananas e i mamay
m’imbatto in Marx con la sua nobile barba
sceso or ora dai monti della Sierra
m’imbatto in Lenin, ogni giorno più spesso, sul muro assolato
in mezzo a piccole stelle rosse in mezzo a frasi spagnole
col braccio alzato Lenin parla sulla Piazza Rossa,
da una tribuna di legno, circondato da bandiere cubane
m’imbatto in Nikita attraverso il ritmo delle canzoni
m’imbatto in Kennedy dai denti falsi di cane
m’imbatto in pezzi di carta da pacchi
fissati con un chiodo
sulle banche sulle officine
c’è scritto quasi sempre Nacionalizado,
incontro dei contadini
nella destra hanno il titolo di diritto alla terra, nella sinistra
l’iscrizione alla cooperativa
sembra che sognino e temano di svegliarsi, e scoprire
che tutto ciò che vedono non sia vero,
m’imbatto in qualcuno dei cinquanta milioni di alberi
piantati dalla Rivoluzione
nelle scuole che adesso son diecimila,
incontro degli architetti
degli architetti con baffi appena spuntati, che vengono
dal sole dalla luna dalle stelle, o piuttosto da un mondo
dove la vita è molto, ma molto più vera, diciamo
che vengono dal cuore del nostro ventunesimo secolo
costruiscono giardini edifici con forme colori comodità senza pari
gli edifici non sono come vestiti in serie, ad esempio
la casa del pescatore non è una casa, è una scatola per gioielli
che non somiglia a nessun’altra;
avevano da dire delle cose belle e da dirle presto
gli architetti della Rivoluzione
ai lavoratori di Cuba
e sanno trasformare il calore in frescura, l’oscurità in luce;
incontro degli operai
da che l’Avana è l’Avana nessuno è passato per le vie
con passo così franco,
a anch’io, che ogni giorno all’Avana mi sento più giovane:
l’amarezza del mondo la sento ogni giorno di meno
nella mia bocca
le rughe sulle mie mani si cancellano un poco ogni giorno
ogni giorno credo di più
che la donna lontana pensi a me soltanto
ha i capelli di fieno biondo, le ciglia azzurre,
e ogni giorno per le vie dell’Avana canto più gioiosamente
somos socialistas adelante adelante.

Nazim Hikmet

 

 

La rivoluzione cubana
secondo Coppola

 

 

 

 

 

Paradiso, Canto I

La versione napoletana è opera del poeta Nazario Bruno

 

‘A grolia ‘e Chi guverna tutto cosa
‘o munno sano enchie, ma è llucente
assaje ‘a na parte e ‘a n’ata è cchiù annascosa.

‘Int’ô cielo cu ‘a luce cchiù sbrennente
i’ stette, ma è na cosa fatecosa
dicere che vvedette listamente,

pecché quann’uno â smania s’abbecina,
va tanno e ttanno nfunno â canuscenza
ca ‘o rrecurdà âppriesso nun traìna.

Ma ‘e chillu Regno Santo io, cu ccuscienza,
chello c’ancòra tengo pe dduttrina
v’ ‘o ccuntarraggio cu accunniscennenza.

Apollo è core… ‘e ‘st’urdema fatica
rìgneme tutto ‘e ll’abbertà ca tiene,
ca ‘o llauro ncuoll’a mme pure se strica.

D’ ‘o Parnaso mo cchiù nun me sustene
sulo na cimma; ca mo cchiù se ntrica
chistu pparlà e aggia fa’ cchiù bbene.

Tràseme dint’ô core, e llà nce miette
chell’abbertà che a Mmarsia ‘o scurtecaje
quanno cu tte cumpètere vulette.

Grannezza ‘e Ddio, si tu chesto me faje:
c’ammeno ll’ombra ‘e chello che vvedette,
dint’àllicuordo nun se perde maje,

mme vedarraje arrivà nfin’a ll’auriello
e ccurunarme ‘e fronne, finarmente,
p’avè scritto cu tte ‘stu cunto bbello.

Comme so’ ppoche ‘e vvote ca se sente
ca è gghiuto ncapa a ll’ate pe tturniello;
ca ogge, ‘e chesto, ‘a ggente è scanuscente,

e invece avess’ ‘a essere cuntenta
‘e se truvà premiata cu ‘sta fronna
ch’è, dd’ ‘a bbona poesia, vera semmenta.

Ê vvote na fajella ‘a sciamma aonna
e fforze, doppo ‘e me, ce starrà ggenta
che cchiù’e me jarrànno â stessa sponna.

Saglie p’ ‘o cielo, ‘a pizze assaje distante,
‘o lampiere d’ ‘o munno, ma da chillo
ca vene cu ttre croce da luvante,

jesce cchiù bbello e cchiù sfarzulillo
e mprena ‘a terra e ‘a fa cchiù abbundante
cu ‘e raje suoi e ca so’ comm’a rrapillo.

‘A llà era matina e ‘a ccà era sera;
‘a Terra meza parte tenéa janca
e cchell’ata mmità teneva nera,

quann’a Bbeatrice, nfaccia a cchella chianca,
vedette che gguardava ‘sta lummera
comme chi ‘e ‘stu gguardà maje nun se stanca.

E, ccomm’esce d’ò primmo, n’atu raggio
e, ascenno, saglie ncoppa, comme fosse
nu pellerino ca torna d’ ‘o viaggio,

facenno ‘e Bbeatrice ‘e stessi mmosse,
‘o sole guardaje io senza dammaggio,
ausanno ll’uocchie suoje, ma senza scosse.

Ché llà se po ffa’ chello ca nun fanno
ll’uommene comm’a nnuje; ca chillu munno
criato fuje pe nnun ce da’ cchiù affanno.

Guardà putette io, nfino a cche, nfunno,
vedette ‘o sole ca luceva tanno,
comm’a nu fierro ca vulleva, tunno;

e, mme parette mo ca juorno a gghiuorno
se fosse aunito, comme si mo Ddio
metteva a ‘o sole n’atu sole attuorno.

Beatrice se guardava, cu vvulìo,
‘e lluce ca splennevano ê cuntorno
e, ddint’a ll’uocchie suoje, guardaje pur’io.

E ddint’a cchillu sguardo io mme facette
comme a Gglauco ca ll’evera assaggiaje
e “Ddio d’ ‘o mare”, dint’ô mare jette.

Âscì d’ ‘o singo è ttuosto quantu maje,
pe vv’ ‘o spiecà nun ce stanno ricette
e cchist’asempio forze è ppure assaje.

Ca io nun so’ ssu l’anema Tu ‘o ssaje,
Ddio ca cumanne nCielo, chest’è ccerto,
pirciò cu ll’uocchie suoje i’ te guardaje.

Quanno d’ ‘e stelle ll’eterno cuncierto,
cu ll’armunie e ‘e suone che lle daje,
facette ‘o core mio attiento e apierto,

‘o cielo assaje sbrennente mme parette
d’ ‘a sciamma ‘e chillu sole, ca né sciummo
né cchiarfo tantu lago maje facette.

Chella museca nova e cchillu lummo
tant’addecrio, tant’anzietà mme dette
ca ‘o core mai accussì ttanno m’attumnmo.

Essa, ca dint’ô core mme leggette,
pe mm’appracà tutta ‘sta cummuzzione,
primma c’ âddimannavo, ggià dicette:

“Te fa sbaglià, chesta mmaggenazzione
ca tu stesso te faje, e ‘sti defiette
te danno sulamente cunfusione.

Tu nun staje nTerra, comm’a tte te pare;
manco na lampa fuje cchiù llevantina
‘e comme ccà tu hê fatto a rreturnare”.

Pe mme fuje comm’a lluce d’ ‘a matina
chistu pparlà fatto pe mm’accuietare,
ma sùbbeto sentette n’ata spina:

“Overo, sì, mme so’ ccapacetato,
dicette – e i’ ll’apprezzo overamente,
ma … ll’aria e ‘o ffuoco comme aggio perciato?”

Allora essa, assaje accunniscennente
e ccu nu tratto doce e accrianzato
comm’a na mamma a ‘o figlio scunnettente:

“Tutt’ ‘e ccose – dicette – so’ assignate
cu ll’armunia che ffa po’ chistu munno
assumigliante a Ddio che ll’ha criate.

E ‘o mierco ‘e ‘stu cuncierto assaje prufunno
‘o vedeno, mo, ccà, ll’ommo e ‘e viate
e ognuno ‘e ‘sta grannezza sta giacunno.

Pecché ccà ogne ccosa è ssistimata
ognuna ‘e na manera: o cchiù lluntana
o cchiù vvicina a Cchi po’ ll’ha criata;

ognuna p’ ‘a via soja iusto s’acchiana
p’ ‘o mare ‘e ll’esistenza scunfinata
sapenno che ‘sta via nun è stramana.

Pe Cchisto ‘o ffuoco saglie nfino â luna,
pe Cchisto ll’ommo tene ârdenza ‘e core,
è Cchisto che ‘sta Terra stregne e aùna:

E nno sulo ‘e ccriature ca so’ ffore
d’arraggiunà, Chisto po’ ‘e spunzuna,
ma pure chi capisce e ttene âmmore.

‘A pruvvidenzia ca ogne ccosa assegna,
c’ ‘a luce soja a ‘o cielo dà cuietanza
addó s’avota chi ‘e cchiù se ngegna

e llà nce porta, (ché llà sta ‘a sustanza),
ll’ammore ‘e Chi a ttutte quante nzegna
‘a strata justa d’ ‘a justa asservanza.

Ma, ê vvote, ‘a matreforma nun s’accorda
nziem’ò pruggetto che vvo fa’ ll’artista
pecché ‘a sustanza nun risponne, è ssorda;

pirciò chistu pruggetto ‘o perde ‘e vista
ll’ommo distratto ca po’ se descorda
e ‘a strata justa cchiù nun ‘a cunquista,

(è ccomme si p’ ô cielo s’adderùpa
nu fùrmene) perdenno, p’ ‘o piacere,
l’àstemo ô bbene che accussì se sciupa.

‘E ‘stu ssaglì, mo chistu core ‘o ccrere,
nun te spantà, cchiù ‘e comme se sgarrupa
‘o sciummo ca d’â cimma scenne ê piere.

Spantà t’avisse, invece, si, leggiero
fusse rummaso nterra, ca ‘o vampore
nterra nun po rrestà maje priggiuniero”.
E ‘o cielo po’ guardaje cu ttanto ardore.