centenario

 

 

“Cittadini, i nostri vecchi padroni sono andati via, lasciandosi dietro un’enorme eredità. Essa ora appartiene a tutto il popolo. Cittadini, abbiate una buona cura di quest’eredità, di tutti i quadri, le statue e le costruzioni. Essi rappresentano voi e la forza spirituale dei vostri antenati”.
Appello del Soviet, autunno 1917

 

 

1917
La conoscenza spezzerà le catene della schiavitù (disegno di A. A. Radakov)

[…]

(Ripresa dell’intervista, e confuse spiegazioni sulla funzione del marxismo, ecc.)
[…]
[Lei è qui, con la faccia visibilmente preoccupata ma alleggerita dalla buona educazione, che aspetta, nell’inquadratura “grigia”, secondo la buona regola del classicismo francese. Un Leger.]

“Secondo lei allora – fa, reticente,
mordicchiando il biro – qual’è
la funzione del marxista?” E si accinge a notare.

“Con… delicatezza da batteriologo… direi [balbetto,
preso da impeti di morte]
spostare masse di eserciti napoleonici, staliniani…
con miliardi di annessi…
in modo che…
la massa che si dice conservatrice
[del Passato] lo perda:
la massa rivoluzionaria, lo acquisti
riedificandolo nell’atto di vincerlo…
E’ per l’Istinto di Conservazione
che sono comunista!
Uno spostamento
da cui dipende vita e morte: nei secoli dei secoli.

Farlo pian piano, come quando
un capitano del genio svita
la sicura di una bomba inesplosa, e,
per un attimo, può restare al mondo
(coi suoi moderni caseggiati, intorno, al sole)
o esserne cancellato per sempre:

una sproporzione inconcepibile
tra i due corni!
Uno spostamento
da fare piano piano, tirando il collo,
chinandosi, raggricciandosi sul ventre,
mordendosi le labbra o stringendo gli occhi
come un giocatore di bocce
che, dimenandosi, cerca di dominare
il corso del suo tiro, di rettificarlo
verso una soluzione
che imposterà la vita nei secoli”

P.P.Pasolini

 

 

radakov 1917Disegno di A. A. Radakov

 

nicolaii 1917Nicola II detto Il sanguinario

 Una statistica ancora incompleta dimostra che tra il 1906 e il 1910, 5735 persone furono condannate a morte per “crimini politici”; 3741 vennero giustiziate. L’atrocità di queste cifre risulta soprattutto dal fatto che nel periodo tra il 1825 e il 1905 in Russia vennero condannati a morte 625 uomini politici, di cui solo 191 furono giustiziati.
Karl Liebknecht

 

 

Febbraio 1917

pietrogrado 1917
Nella capitale dell’impero russo coesistono due città divise dalla Neva: la città amministrativa su parte della riva sinistra, attraversata dalle Prospettiva Nevskij, con il Palazzo d’Inverno, i ministeri, il Palazzo di Tauride e le residenze della borghesia e dell’aristocrazia; su parte della riva destra, nel quartiere di Vyborg, c’è la città operaia. Per difendersi dalle manifestazioni operaie, le autorità fanno alzare i ponti sulla Neva. Ma d’inverno il fiume è ghiacciato e può essere attraversato anche a piedi.

 

 

majak 1917

“Nicola lo smemorato”, lubok di Vladimir Majakovskij.
Sul palo la scritta Fuori! con il seguito, la moglie, la cara mamma!

 

 

radakov 1917Striscia di A. A. Radakov

[one_third]monumento 1917[/one_third]
[one_third]testone 1917[/one_third]
[one_third_last]1917[/one_third_last]

Pietrogrado, febbraio 1917. Monumenti smantellati, emblemi imperiali dati alle fiamme.

 

Marzo 1917

abdicazione 1917

L’atto di abdicazione di Nicola II, “per grazia di Dio imperatore e autocrate di tutta la Russia”. In basso a sinistra, luogo e data della firma:
Pskov, 2 marzo 1917

 

nyt 1917Prima pagina del NYT del 17 marzo 1917

 

 

allavoro 1917Nicola II ed il figlio Aleksej (il principe ereditario) durante la prigionia a Tobol’sk nel 1917.
Nel 2000 i Romanov sono stati canonizzati e dichiarati “santi martiri” dalla chiesa ortodossa russa. Vengono festeggiati il 17 luglio.

Nel corso della rivoluzione [di febbraio] presero quindi forma due organismi, ciascuno de quali pretendeva di rappresentare la nazione rivoluzionaria. Il primo era il governo provvisorio, nominato da un comitato esecutivo della Duma. Esso risultava quindi interamente portavoce di quell’organo che, senza aver mai rappresentato appieno il popolo, nel corso della guerra aveva perso completamente qualsiasi possibilità di esprimere altri interessi che non fossero quelli della borghesia e delle classi privilegiate. Il secondo era il Soviet degli operai e dei soldati […]. Non credo che mi capiterà mai più in vita mia di essere così felice come in quei giorni, nei quali vidi operai e soldati contadini eleggere rappresentanti appartenenti alla propria classe e non ad un’altra. Meravigliandomi che un simile evento non fosse accaduto prima, mi sovvenne Shelley:

“Levatevi come leoni
in numero indicibile!
Scrollatevi di dosso le catene
come fosse rugiada
caduta su di voi durante il sonno.
Voi siete molti, ed essi sono pochi”.

E pensai quanto si addicessero alla rivoluzione le parole di Sir Thomas Browne sul Diluvio, quando scriveva:
“Che ci sia stato una volta un diluvio non mi sembra un miracolo tanto grande quanto il fatto che non ce ne sia uno ogni giorno”.

Morgan Philips Price (nel 1917 corrispondente del Manchester Guardian a Pietrogrado)

 

 

Luglio 1917

1917Soldati e operai di Pietrogrado al corteo di luglio. Sugli striscioni:
“La solidarietà dei lavoratori è la fine della guerra!”
“Abbasso i 10 ministri capitalisti!”
“Tutto il potere ai Soviet dei deputati operai, sodati e contadini!”

1917

A. Moravov, Lenin parla dal balcone del palazzo di Krzesinska nel luglio 1917

Di là,
Lenin, con un pugno di compagni,
si levò sopra il mondo
ed espresse le idee più chiare di un incendio.
Più forte del tuonare dei cannoni fu la sua voce.
Da una parte gli scoppi, gli schianti,
il balenar delle spade mulinate sopra i cavalli,
dall’altra, contro spade e cannoni,
calvo, con gli zigomi acuti sotto la pelle,
un uomo solo:
«Soldati!
Col tradimento, facendo mercato della nostra carne,
i borghesi ci mandano alla guerra
contro i turchi, a Verdun e sulla Dvina.
Basta! Trasformiamo la guerra dei popoli
in guerra civile. Basta
coi massacri, la morte e le ferite!
I popoli non hanno colpa.
Contro la borghesia di tutti i paesi
leviamo la bandiera della rivoluzione!»
Qualcuno pensò che i cannoni
starnutissero fuoco alitando marciume,
eliminando quell’uomo
senza neppure lasciarne
memoria del nome,
quand’ecco, tra sibili e tuoni
tra il fragore dell’armi,
feroci l’un contro l’altro, i Paesi
si gridano: «In ginocchio!»
Si batterono ma nessuno conquistò la vittoria:
vinse solo il compagno Lenin,
falla dell’imperialismo.

V. Majakovskij

 

[…] Come dimenticare il primo luglio a Pietrogrado? Per le vie della città fluiva una marea di soldati in grigioverde, di cavalieri in blu e oro, e marinai in giubba bianca, operai in tuta nera e ragazze in corpetti multicolori, e ognuno recava qualcosa di rosso: una bandiera, un fiore, un nastro; le donne fazzoletti scarlatti in testa, mentre gli uomini indossavano la rubaška, la camicia rossa. Più in alto, mille rosseggianti striscioni fremevano e spumeggiavano di riflessi cremisi.
E cantava, questa marea umana in movimento.
Tre anni prima avevo visto la macchina da guerra tedesca discendere la valle della Mosa nella sua avanzata verso Parigi. I dirupi echeggiavano allora del Deutscheland über Alles cantato da migliaia di voci, al ritmo cadenzato dal passo di migliaia di stivali. Qualcosa di potente ma meccanico, e regolato dall’alto, come ogni azione di quelle grigie schiere.
Il canto di queste colonne rosse invece sgorgava spontaneo dall’anima del popolo. Chiunque accennasse un qualsiasi inno rivoluzionario, al ritornello veniva seguito dal timbro profondo della voce dei soldati che si fondeva con quella struggente delle operaie […].
Davanti alla cupola di sant’Isacco e davanti ai minareti della moschea marciavano quaranta fedi e altrettante razze, che il fuoco della rivoluzione aveva fuso in una sola. le miniere, le fabbriche, i bassifondi e le trincee erano stati cancellati dalle loro menti. Era il giorno creato dal popolo, la giornata della gioia e della felicità.

A. Rhys Williams, nel 1917 a Pietrogrado come corrispondente del New York Evening Post.

 

 

1917

Il primo luglio aveva lanciato il preavviso dell’incombente tempesta che si sarebbe scatenata in tutta la sua furia il sedici […].
Non ci voleva molto per provocare la reazione di gruppi armati con i nervi a fior di pelle e la furia nell’anima. E i provocatori erano ovunque. Agenti dei centoneri si davano da fare tra la folla, istigando alla rivolta e al massacro. A Kresty misero in libertà duecento criminali affinché saccheggiassero e depredassero. Speravano che la rivoluzione fosse travolta dal disastro per poter restaurare lo zar; e in alcuni luoghi riuscirono a provocare spaventose carneficine.
In un momento di tensione dell’affollato raduno a Tauride, un provocatore sparò un colpo. Altri cento risposero. Da ogni angolo lampeggiavano le fucilate e i compagni sparavano a zero sui compagni. La gente urlava, schiacciata contro i pilastri, tentava di rialzarsi ma ricadeva al suolo. Quando il fuoco cessò, ne restarono a terra sedici di loro […].
Per tre volte quella notte scivolammo sul sangue che chiazzava la strada. La Prospettiva Nevskij era ridotta a una scia di vetrine frantumate e negozi saccheggiati […].
Soltanto la lunga esperienza di barricate e scontri urbani di Pietrogrado e l’innato buon senso degli abitanti evitò una carneficina ancora più sanguinosa. Sulle caotiche masse in rivolta si esercitò la forza stabilizzatrice di migliaia di lavoratori guidati dal partito bolscevico[…]. Su quelle masse soltanto i bolscevichi avevano ora ascendente. E tutte le parti in causa li pregarono di farne buon uso. Così essi inviarono i loro oratori nel portico centrale di Tauride a tenere un breve discorso a ogni reggimento e delegazione.
Dal nostro punto d’osservazione potevamo vedere l’intero affollatissimo raduno […]. Fasci di luce proiettati dai fari delle automobili puntati sull’oratore ne disegnavano l’ombra sul palazzo, stagliando una gigantesca sagoma nera […].
“Compagni – disse il gigante bolscevico – […]. Voi, uomini di Pietrogrado, siete venuti all’esecutivo dei soviet dicendo: prendete il governo, ecco qui le baionette che vi appoggeranno! Volete che i soviet governino? Lo vogliamo anche noi bolscevichi: ma ricordiamoci che Pietrogrado non è tutta la Russia, e per questo esigiamo che l’esecutivo centrale richiami i delegati da tutta la Russia […]. Non ascoltate i provocatori. non fate il gioco dei vostri nemici uccidendovi tra di voi”.
[…] Ma una cosa era ormai chiara ai bolscevichi: i soldati e i lavoratori rivoluzionari di Pietrogrado erano in stragrande maggioranza contro il governo provvisorio e per i soviet. Volevano che il Soviet fosse governo. Ma i bolscevichi temevano che questo passo fosse prematuro. Come avevano detto, “Pietrogrado non è la Russia”.

A. Rhys Williams

 

 

La Russia insorge

 

odessa 1917

Cartolina postale da Odessa, 1917: Libertà! Eguaglianza! Fratellanza!

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1917
Mosca

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1917
Kiev

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1917
Char’kov

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1917
Sebastopoli

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1917
Tiflis

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1917
Minsk

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1917
Merve

[…] Più tardi, intorno a mezzogiorno, agli angoli opposti della piazza appaiono due tavoli. Poi, ecco gli striscioni rivoluzionari di tutte le tonalità del rosso con sopra le scritte in oro, argento e bianco, che, vivaci e splendenti, avanzano fendendo la gran folla. Gli oratori si issano sui tavoli […]. Per l’occasione tutta la città è qui, e anche la maggior parte dei quindicimila soldati. Sull’orientamento di questa platea non ci sono dubbi – dalle enormi bandiere alle spalle dei tavoli, una con la scritta “Potere al popolo! Viva la pace!” e l’altra “Pane, pace e libertà”; fino ai fragorosi boati, riservati alle parole più accese degli oratori, che denunciano il governo per non aver imposto la conferenza di pace, lo sfidano ad abolire i soviet, e si soffermano a lungo sul carattere imperialista della guerra condotta dagli alleati dell’Intesa.
Di certo non è mai accaduto nella storia che, nel bel mezzo di una battaglia, un esercito in guerra abbia tenuto un simile comizio per la pace. I soldati russi hanno conquistato la libertà, si sono liberati dello zar, e sono convinti che non ci siano più ragioni per proseguire una guerra che peraltro giudicano imperialistica fin dall’inizio; hanno assimilato a fondo la lezione del socialismo internazionalista, eppure devono combattere ancora […]
Per tutto il pomeriggio gli oratori si alternano l’uno dopo l’altro. L’immensa folla sta lì per cinque lunghe ore ad ascoltare, paziente, trattenendo il fiato e tendendo le orecchie […]. Quasi tutti gli oratori sono bolscevichi, che concludono invariabilmente: “Tutto il potere ai soviet, terra ai contadini, pace democratica immediata!”

John Reed (autore di Dieci giorni che sconvolsero il mondo. A Pietrogrado dal settembre 1917, partecipa alla presa del Palazzo d’Inverno e collabora insieme a Rhys Williams con l’Ufficio per la propaganda internazionale rivoluzionaria)

 

centenario 1917
Copertina dell’edizione russa di Dieci giorni che sconvolsero il mondo

 

 

1917

 

 

Ottobre 1917

1917

Come sempre sibilava l’ottobre coi suoi venti
così come sibila sempre anche col capitalismo
e oltre il ponte di Troizkij
sibilavano le auto e i tram
serpeggiando sulle solite rotaie.
Sotto il ponte scorreva la Neva
e sulla Neva
navigavano quelli di Kronstadt:
presto
un crepitare di fucileria
farà sussultare il Palazzo d’Inverno.
Dentro una macchina che va all’impazzata
con la cappotta sventolante,
zitto, zitto,
come una tromba imballata,
oltre Gàtcina,
a rifugiarsi,
si dilegua l’ex-Kerenskij.
«Torcete il nemico: lo schiavo s’è ribellato!»
Gli occhi delle rare stelle ora vedono
come, dalle caserme, sulla via Mil’onnaja,
ad anello,
circondato il Palazzo d’Inverno,
avanza il reggimento Keksholm.
All’Istituto Smol’ny
invece,
meditando sulla battaglia e sulle truppe,
Lenin, travestito, muove le pedine
e davanti a una carta
Antonov e Podvojskij
piantano bandierine
nei punti dell’attacco.
Farai meglio a lasciare il potere con le buone,
ormai la tua fine è venuta!
Da tutte le porte della città
le guardie rosse
vanno verso il Palazzo d’Inverno.
Reparti d’operai,
di marinai,
di miserabili,
arrivano con baionette luccicanti
e come mani
si stringono alla candida gola del palazzo.
Due ombre si sono levate,
enormi,
inquiete:
si muovono fronte a fronte
e il cortile del Palazzo
con le mani d’acciaio della sua cancellata
trattiene la pressione della folla.
Ondeggiano le due ombre giganti
spinte dal vento
e dal volo delle pallottole,
mentre lo strepito delle mitragliatrici
è come uno scricchiolio di ossa frantumate.
Si spazientiscono i soldati
del reggimento Pavlovsk:
«Si son messi a giuocare con la politica…
Cosa valgono contro di noi
quelle oche della Botchkarëva?
Dateci, dunque, l’ordine d’attacco!»
E le ombre lottavano confondendo le zampe,
le zampe che nessuno sbrogliava o strappava…
Non sopportando questa muta lotta
il debole cedeva
o per terrore fuggiva.
Sopraffatto dallo spavento
per primo si disperse
il battaglione femminile,
poi, verso le undici,
lasciarono le batterie
gli uomini di Michajlov e Konstantinov…
Kerenskij intanto è ben nascosto:
pròvati a stanarlo!
S’impensierì anche il testone cosacco
e così i difensori del Palazzo d’Inverno
diradavano
come i denti di un pettine.
A lungo durò questo silenzio:
un silenzio di speranze,
un silenzio di disperazione.
Intanto al Palazzo d’Inverno,
fregiati di patacche d’ottone,
in morbide poltrone decorate di bronzo,
siedono i ministri
e c’è nell’aria
un profumo di barbe fatte di fresco.
Ma quelli che stanno nelle foreste
armati di baionette,
di loro non si curano
e neppure li ascoltano:
i ministri cadranno come pere mature
al primo scrollone.
Raro è il suono delle loro voci,
si parlano a segni e sussurri:
«Kerenskij dov’è?»
«Lui?»
«Dietro i cosacchi!»
Poi,
di nuovo,
silenzio
e soltanto verso sera:
«Prokopovitch dov’è?»
«Prokopovitch non c’è.»
E dietro il ponte di ghisa di Nicolaiev,
come morte,
freddamente scrutava
l’acciaio delle torrette dell’Aurora.
Ed ecco,
alto sul suo colletto
s’è levato il viso di Konovalov.
Il rumore che scorreva come un ruscello
adesso irrompe
con fragore di risacca.
Chi è quello spilungone?
C’è arrivato finalmente:
su ogni vetrata
giù
colpi di bastone.
Sono le batterie di tre pollici
della fortezza Pietro e Paolo
e sopra,
come se la città esplodesse,
rintrona anche il sei pollici
dell’Aurora.
Ma ancora non s’è spenta
l’eco della scarica potente,
che già sulla fortezza Pietro e Paolo
si leva un fanale:
il segnale dell’attacco.
«Via!
Avanti!
All’assalto!»
Irruppero sui tappeti,
sotto le volte dorate!
D’ogni scalea
ogni gradino conquistavano
scavalcando i corpi degli Junker.
Come torrente, invadendo le stanze,
scorrevano, ad ogni perdita
rifondendosi
e ad ogni divano,
ad ogni porta,
infuriavano gli scontri
più infuocati del mezzogiorno.
In quella sfilata di sale,
già assordate d’acclamazioni
ai monarchi incoronati d’oro,
nei saloni di velluto,
lungo i maestosi corridoi,
ora battevano fragorosi
gli stivali e i calci dei fucili.
Sopra uno spaurito figlio di cane,
un operaio delle officine Putilov,
più tenero di un papà,
gridava:
«Ehi, bamboccio,
molla l’orologio che hai rubato:
le ore
da oggi
sono nostre!»
Il calpestio crebbe,
rastrellò quei tredici ministri,
li imbottigliò,
premette
e inchiodò.
Si nascosero sotto le cravatte:
cos’altro potevano fare?
Come se avesse una scure alla nuca,
a duecento passi…
a trenta…
a venti …
arriva uno Junker di corsa:
«Ormai è stupido battersi!»
Tredici pigolii rispondono:
«Arrendersi, arrendersi!»
Ma già sulla porta
appaiono casacche, bluse, tulup,
e nel silenzio,
dal silenzio moltiplicata,
una voce soddisfatta di basso,
si alza: «Chi sono qui i ministri?
Fuori!
Il vostro tempo è finito!
Intanto all’Istituto Smol’ny
la folla, dilatando il petto,
copriva col canto
il fuoco d’artifizio delle notizie
e per la prima volta
invece di «Nostra alfine sarà»
cantava:
«Nostra alfine è…».
All’alba
mancava non più di un metro,
le mani dei raggi si alzavano dall’oriente.
Il compagno Podvojskij
salito in macchina,
stancamente disse: «Abbiamo finito…
allo Smol’ny!»
Tacque la mitragliatrice,
l’alveare ronzante delle pallottole
tacque.
Ardevano le stelle
come lame di baionette,
impallidivano le stelle
di guardia nel cielo.
E come sempre sibilava l’ottobre coi suoi venti,
serpeggiavano le rotaie sul ponte
e i tram
continuavano la loro corsa
già
nel socialismo.

[…]

Sopra i falò s’è fatto buio.
Come sommergibile
s’è inabissata
l’esplosa Pietroburgo,
e solo quando un’ala ardente di vento
fa ondeggiare la fitta oscurità,
di nuovo ci ricordiamo della tempesta
che fu senza tregua
dall’alto e d’intorno.
Come un’acqua è la tenebra
e così, senza fondo,
appare l’abisso del cielo,
mentre ancora si scorge qui,
sagoma dì cetaceo,
l’ombra dell’Aurora.
«Il fuoco delle mitragliatrici
ha spazzato a zero la piazza»,
i lungomari sono deserti
e soltanto i falò vampeggiano
nella densa oscurità.
[…]
Immobile, fisso è lo sguardo di Blok
e l’ombra di Blok
sorgendo sopra un muretto
anch’essa pare che guardi:
sembra che entrambi aspettino
l’incedere di Cristo sull’acqua.
Ma Cristo a Blok non ritenne opportuno apparire:
Blok se ne stava con molta tristezza negli occhi.
E invece di Cristo,
più vivi,
col loro canto,
apparvero degli uomini all’angolo della strada.
In piedi, in piedi, in piedi!
Lavoratori, braccianti,
stringete la falce e il martello,
stringete il fucile nel ferro della
mano!
In alto la bandiera!

V. Majakovskij

 

[…] La mattina dopo, il 7 novembre, torno a Smol’nyj, dove il Soviet di Pietrogrado è in seduta per eleggere i delegati del secondo Congresso dei soviet che si apre nel pomeriggio. Presiede Trotsky,  sulla tribuna si erge lo stesso uomo minuto e calvo che ho visto sei mesi prima guidare il ristretto gruppo bolscevico al primo Congresso dei soviet: è Lenin senza baffi, rasati per cambiare i connotati durante il periodo di clandestinità ormai terminato. Il Soviet di Pietrogrado è ormai divenuto una compatta falange di delegati bolscevichi e la sala è scossa da applausi mentre Lenin parla dell’imminente congresso come dell’unico organismo in grado di realizzare il programma rivoluzionario dei lavoratori, dei soldati e dei contadini russi.
Qualcuno al mio fianco mi sussurra che, con l’appoggio delle guardie rosse delle fabbriche e di parte della guarnigione, il Comitato militare rivoluzionario ha occupato il Palazzo d’Inverno e arrestato tutti i ministri ad eccezione di Kerenskij, che è riuscito a fuggire in auto.
[…] Alla tribuna sale allora Lenin, la cui voce suona debole per la tensione, e l’eloquio appena incerto. Forse la situazione non è ancora completamente sotto controllo ed è difficile anticipare un programma in queste condizioni […].
“Noi chiediamo ai compagni inglesi, francesi e tedeschi di seguire il nostro esempio e di fare la pace con i loro amici lavoratori contro il volere dei loro governi capitalisti – conclude Lenin – Noi crediamo che la nazione che ha dato i natali a Karl Marx non resterà sorda al nostro appello. Crediamo che le nostre parole saranno ascoltate dai discendenti dei comunardi parigini e che il popolo britannico non dimenticherà l’eredità dei cartisti”.
Esco da Smol’nyj verso le dieci di sera […]. Costeggio le rive della Neva che, davanti alle banchine, già comincia a ghiacciare. Una gelida nebbia novembrina alita dal golfo di Finlandia. Di fronte alla Vasil’evskij Ostrov stazionano l’incrociatore Aurora e un cacciatorpediniere, i cannoni puntati sul Palazzo d’Inverno […]. Prima di tornare indietro mi soffermo davanti alla breccia nelle mura del palazzo, prodotta dall’unico colpo sparato dall’incrociatore, il segnale che il Palazzo d’Inverno doveva essere evacuato e consegnato ai nuovi governanti.

Morgan Philips Price

 

 

1917Isaak Brodsky, Comizio di Lenin davanti all’Armata Rossa

Ma ecco che Vladimir Il’ič sale velocemente sulla tribuna e articola con la sua pronuncia imperfetta la parola “compagni”. Mi sembrò che parlasse male, ma dopo un minuto ero catturato come tutti gli altri dal suo discorso. Era la prima volta che sentivo parlare dei problemi politici più complessi in modo così semplice. Quell’uomo non cercava di costruire belle frasi, ma presentava ogni parola come se la tenesse nel palmo della mano, mettendone a nudo il significato esatto, e lo faceva con una straordinaria disinvoltura. Con il braccio teso in avanti e leggermente alzato, la mano che sembrava pesare ogni parola, egli rigettava le frasi degli avversari per sostituirle con le prove che la classe operaia stava andando per la sua strada, e non camminava dietro né accanto alla borghesia liberale […]. Tutto ciò era straordinario e sembrava che Lenin lo dicesse non a nome suo, ma per volontà della Storia. Dietro di me la folla mormorava di ammirazione: “Parla fitto”. Ed era vero.
Maksim Gor’kij

 

1917

 

[…]
Ed io sapevo che tutto era chiarito,
era capito, sapevo che l’occhio di Lenin
coglieva il grido del contadino
e gli urli del fronte,
la volontà delle officine Nobel,
la volontà delle officine Pulitov.
Egli girava nella memoria centinaia di province,
abbracciava un miliardo e mezzo di uomini.
Egli soppesava il mondo nel corso della notte.
E la mattina:
«A tutti, a tutti, a tutti.
A tutti i fronti rossi di sangue,
a tutti gli schiavi sotto il pugno dei ricchi.
Il potere ai Soviet.
La terra ai contadini.
La pace ai popoli.
Il pane agli affamati».
[…]
Dagli uni agli altri passarono quelle parole,
dai vicini ai lontani, a tutti infiammarono i cuori:
«Pace alle capanne, guerra ai palazzi».
Si batterono in ogni officina,
sollevando la polvere nelle città
e dietro il passo di ottobre
arse il falò delle ville nobiliari.
La terra, lettiera sotto la frusta dei padroni,
il contadino la prese, come pagnotta dal sacco,
con tutti i suoi ruscelli e le colline,
la seminò cantando e lavorò.
Gli aristocratici, inamidati e occhialuti,
sputando rabbia,
si trascinavano in fuga
là dove ancora hanno qualche valore
i titoli di conte o di barone.
Buon viaggio!
Noi,
anche ad ogni cuoca
insegneremo a dirigere lo stato.

V. Majakovskij

 

 

“Libera scuola in libero stato!”
“Dvinsk liberata saluta il potere dei Soviet!”
L’istruzione è la via del comunismo

 

Piccolo dialogo (per concludere)…

…e, infine, mi chiederei come si potrà spezzare questo monopolio totalitario della Chiesa, se tutta la memoria del tentativo del comunismo novecentesco è diventata oggi tabù (Giovanni Paolo II, oltre che incarnazione di un “primato che non riconosce errore” è stato anche il “vincitore del comunismo”, e cioè di un’esperienza storica nella quale si era affacciata l’ipotesi che forse un senso religioso alla vita poteva anche non essere più necessario).
Ennio Abate

… e poi non cospargiamoci inutilmente il capo di cenere… quella memoria sarà diventata un tabù, “qui e ora”. Ma sappiamo già in prospettiva che il tentativo che il secolo XX ha fatto (tutto, semplicemente tutto ne dipende nel bene come nel male) resterà indimenticato negli annali della ancora lunga e forse eterna lotta degli oppressi contro i loro oppressori.
Fabio Milana

Essere amici della nuova Russia”, come noi lo intendiamo, significa forse anzitutto essere
amici della giustizia e della libertà, essere nemici della menzogna e della sobillazione.
Nessuno Stato finora si è rifiutato di mantenere relazioni diplomatiche con la dittatura italiana
di Mussolini, con quella spagnola di Primo de Riveras, con il governo sanguinario della
Romania, Bulgaria, Ungheria, Polonia o Lituania o con altre dittature. Ma con la maledetta
Russia “degli operai e dei contadini” i governi borghesi, purtroppo sempre così moralistici,
che amano e praticano la nonviolenza, non vogliono assolutamente aver niente a che fare.
Helene Stöcker