linkage

 

 

Five Ws + H

5W+HAlcuni inglesi, finiti nelle mani di una guida del Tirolo orientale e partiti con questa guida per le Tre Cime, una volta arrivati sulla più alta delle tre vette sono rimasti talmente delusi dallo spettacolo che la natura offriva da questa vetta che lì, su quella vetta, hanno ammazzato seduta stante la guida, un padre di famiglia con tre figli e una moglie, a quanto si dice, sorda. Quando però hanno preso coscienza di quello che avevano effettivamente combinato, si sono gettati uno dopo l’altro nel precipizio. Per cui un giornale di Birmingham ha scritto che Birmingham aveva perduto il suo più illustre editore di giornali, il suo più straordinario direttore di banca e il suo più valente necroforo.

Thomas Bernhard, “L’imitatore di voci”

 

 

Geometria

creazione-di-adamo

Oggi un punto in pittura può dire di più di una figura umana. Una verticale che si collega ad una orizzontale produce un suono quasi drammatico. Il contatto dell’angolo acuto di un triangolo con un cerchio non ha un effetto minore di quello dell’indice di Dio con quello di Adamo in Michelangelo. E se le dita non sono anatomia o fisiologia, ma qualcosa di più, cioè mezzo pittorici, il triangolo e il cerchio non sono semplice geometria ma qualcosa di più: mezzi pittorici. Accade così che talvolta il silenzio parli più alto del rumore e che i mutismo abbia una voce eloquente.

V. Kandinskij, “Riflessioni sull’arte astratta”

 

 

Geologia

jacobJacob Epstein, Jacob and the Angel, Tate Britain Gallery, Londra

I versi di Dante hanno preso forma e colore in base, appunto, ad un processo geologico. La loro struttura materiale ha rilevanza di gran lunga maggiore della loro famigerata potenza scultorea. Figuratevi un monumento di granito o di marmo che nella sua tensione simbolica miri non alla rappresentazione di un cavallo o di un cavaliere, ma alla rivelazione della struttura interna di quello stesso marmo o granito. In altre parole, immaginate un monumento di granito eretto in onore del granito e, si direbbe, col proposito di rivelare l’idea di granito: avrete così un’immagine abbastanza chiara del rapporto che si stabilisce in Dante tra forma e contenuto.

Osip Mandel’štam, “Conversazione su Dante”

 

 

Comparazione dei valori estetici delle belle arti

Tra tutte le belle arti, il primo posto spetta alla poesia […]
Dopo la poesia, considerando l’attrattiva e il moto che suscita nell’animo, porrei l’arte che è più vicina ad essa che alle altre arti della parola, e che molto naturalmente le si può accompagnare, e cioè la musica […]

Se invece si stima il valore delle belle arti dalla cultura che esse arrecano all’animo, assumendo come metro l’ampliamento delle facoltà che devono concorrere alla conoscenza, alla musica toccherà l’ultimo posto… Le arti figurative sotto questo aspetto la precedono di molto […]

Inoltre, alla musica, bisogna rimproverare una certa mancanza di urbanità, soprattutto per la proprietà dei suoi strumenti di spandere il proprio influsso al di là del richiesto (al vicinato), per così dire imponendosi e violando la libertà di quanti non partecipano al trattenimento musicale; cosa che non fanno le arti che parlano agli occhi, poiché basta distogliere questi quando non si vuole raccoglierne l’impressione¹.

¹ Coloro che hanno consigliato per le devozioni domestiche anche il canto di inni spirituali, non hanno riflettuto sul fatto che, con una pratica di culto tanto chiassosa (e proprio per questo sovente farisaica) causavano un grosso incomodo al vicinato, costretto ad unirsi al canto o comunque ad interrompere il suo lavoro intellettuale.

Immanuel Kant, “Critica del giudizio”

 

AN WALTER BENJAMIN

hinsichtlich des kunstwerks
im zeitalter seiner technischen reproduzierbarkeit
haben Sie sich geirrt
benjamin

die originale bleiben geheimnisse
auratisch for ever

wie die herzogin von guermantes
in Ihrer übertragung

Ihre winzige und rätselhafte schrift
kann jetzt nur noch gretel adorno lesen
sagt man

brecht war nicht ganz auf der höhe
Ihrer zuneigung
er hielt Sie bloß für einen besonders intelligenten
analytiker

an der spanischen grenze wußten Sie
daß Ihre zeit zu ende war

jenseits des meeres gab es nur noch
das institut

die zensierten texte
die abgelehnten dissertationen
wie damals
in frankfurt

das war kein ziel für Sie
benjamin
Sie wären gerne in paris geblieben
in den blaugrauen straßen
zusammen mit baudelaire

ein weicher bürgerlicher berliner jude
lenin erwartend und
den heiligen geist

Alfred Andersch

[per quanto concerne l’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
Lei si è sbagliato
benjamin

gli originali rimangono misteri
auratici for ever

come la duchessa di guermantes
nella Sua versione

la Sua scrittura minutissima ed enigmatica
soltanto gretel adorno è ormai capace di leggerla
si dice

brecht non era del tutto all’altezza
del Suo affetto
La riteneva solamente un analitico
particolarmente intelligente

al confine spagnolo Lei sapeva
che il Suo tempo era alla fine

al di là del mare c’era ormai solo
l’istituto

i testi censurati
le dissertazioni respinte
come allora
a francoforte

questa non era una meta per Lei
benjamin
Lei sarebbe rimasto volentieri a parigi

nelle strade grigiazzurre
insieme a baudelaire

un delicato borghese ebreo di berlino
che aspettava lenin e
lo spirito santo]

 

Vorfrühling

vorfru
VOR1
VOR2

Rainer Maria Rilke

 

 

Che cos’è la poesia?

la domanda è rosso fuoco
la risposta è blu

Paolo Conte

 

Un train qui siffle dans la nuit
C’est un sujet de poésie
Un train qui siffle en Bohème
C’est là le sujet d’un poème
Un train qui siffle mélod’
ieusement c’est pour une ode
Un train qui siffle comme un sansonnet
C’est bien un sujet de sonnet
Et un train qui siffle comme un hérisson
Ça fait tout un poème épique
Seul un train sifflant dans la nuit
Fait un sujet de poésie

Raymond Queneau (1946)

[Un treno che fischia nella notte
È un soggetto da poesia
Un treno che fischia in Boemia
Ecco il soggetto di un poema
Un treno che fischia melodi
osamente è per le odi
Un treno che fischia come un uccelletto
È proprio un soggetto da sonetto
E un treno che fischia come un istrice
Fa un intero poema epico
Solo un treno che fischia nella notte
È un soggetto da poesia]

 

 

Definizione della poesia

E’ l’improvviso fischio del treno,
Il crepitìo dei ghiaccioli,
La notte che gela la foglia,
Il duello di due usignoli.

E’ il pisello inselvatichito,
Il pianto del cielo nei baccelli,
Figaro dai leggii e dai flauti
Che sulle aiole cade a granelli.

E’ tutto ciò che alla notte importa
Trovare nei fondali profondi,
E una stella portare nel vivaio
Sui palmi bagnati e tremebondi.

Più piatta d’una tavola è l’afa,
Il firmamento è sommerso di ontano,
Alle stelle si addice ridere,
Ma l’universo è sordo e lontano.

Boris Pasternak (1917)

 

“Che cos’è la poesia?”

Chi osa chiedermi una cosa simile? […] Il Diktat è che la risposta sia poetica. E che perciò si indirizzi a qualcuno, in specie a te, ma come a quell’essere perso nell’anonimato, tra città e campagna, un segreto comune, insieme pubblico e privato, assolutamente entrambi, assolti dall’esterno e dall’interno, né l’uno né l’altro, l’animale gettato in strada, assoluto, solitario, chiuso a riccio su di sé. Può farsi schiacciare, appunto, proprio perciò, l’istrice.
[…] Non la fenice, non l’aquila, l’istrice, basso, bassissimo, vicino alla terra.
Da oggi chiamerei poema […] un animale convertito, chiuso a riccio, avvoltolato su di sé e rivolto verso gli altri, insomma una cosa, e modesta, discreta, terrestre, una umiltà […] Il poema può inflettersi a riccio, ma è pur sempre per rivolgere all’esterno i suoi segni acuminati.

Jacques Derrida

 

La poesia è un fagiano che scompare nel sottobosco.

Wallace Stevens

Il Poeta

Credo che dovrei cominciare a lavorare un poco, ora che imparo a vedere. Ho vent’otto anni, ed è come se nulla fosse stato. Ricapitoliamo: ho scritto uno studio sul Carpaccio, brutto, un dramma che si intitola “Matrimonio” e vuole dimostrare con mezzi ambigui una tesi falsa, e dei versi. Oh, ma con i versi si fa ben poco, quando li si scrive troppo presto. Bisognerebbe aspettare, e raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita, e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, si riuscirebbe forse a scrivere dieci righe che siano buone. Perché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si hanno già presto), sono esperienze. Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. Si deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e a separazioni che si videro venire da lontano, a giorni dell’infanzia che sono ancora inesplicati, ai genitori che eravamo costretti a mortificare quando ci porgevano una gioia e non la capivamo (era una gioia per un altro), a malattie dell’infanzia che cominciavano in modo così strano con tante trasformazioni così profonde e gravi, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattine sul mare, al mare, a mari, a notti di viaggio che salivano frusciando e volavano con tutte le stelle, e ancora non basta poter pensare a tutto ciò. Si devono avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti, e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Perché i ricordi di per sé ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.

Rainer Maria Rilke, “I quaderni di Malte Laurids Brigge”

 

“Come osa fiorire l’albicocco

… … …

 

 

Carlo Crivelli, Maria Maddalena (dal Polittico di Montefiore, 1472), Montefiore dell’Aso

 

La Poetessa

Die Dichterin

[…]

Mit schwarzen Blumen, mit gemalter Brau,
Mit Silberketten, Seiden, blaubesternt.
Sie wußte manches Schönere als Kind
Und hat das schönre andre Wort verlernt. –

Der Mann ist soviel klüger, als wir sind.
In seinem Reden unterhält er sich
Mit Tod und Frühling, Eisenwerk und Zeit;
Ich sage: «Du …» und immer: «Du und ich».

Und dieses Buch ist eines Mädchens Kleid,
Das reich und rot sein mag und ärmlich fahl,
Und immer unter liebem Finger nur
Zerknittern dulden will, Befleckung, Mal.

So steh ich, weisend, was mir widerfuhr;
Denn harte Lauge hat es wohl gebleicht,
Doch keine hat es gänzlich ausgespült.
So ruf ich dich. Mein Ruf ist dünn und leicht.

Du hörst, was spricht. Vernimmst du auch, was fühlt?
Gertrud Kolmar

[…]

Con fiori neri e sopracciglia dipinte
Con catene d’argento, sete, di blu stellata.
Da bambina sapeva le cose più belle,
Ma le parole più belle le ha scordate.

L’uomo è molto più saggio di noi.
Nei suoi discorsi si intrattiene
Con morte e primavera, industrie e tempo;
Io dico «Tu…» e sempre «Tu ed io».

Questo libro è un vestito di ragazza,
Che sia ricco e rosso o povero e scolorito
Sempre soltanto da dita amate
Si lascerà sgualcire, a volte macchiare.

Così sono qui a mostrare quel che mi è accaduto;
Quel che un forte candeggio ha sbiadito
Ma non ha del tutto cancellato.
Così io ti chiamo. La mia chiamata è sottile e leggera.

Tu senti quello che dice. Ma comprendi quello che sente?

 

 

Mariana

[…] fu allora che capii, signore, che niente di quello che avevo composto non era già stato fatto in altre forme e in altri tempi, non era già stato esposto in scritti tali da commuovere i contemporanei e le generazioni future. E allora ho sorriso dei miei dolori, perché quello che c’era di mio in essi non l’avevo mai detto, né mai sarà detto da chi soffra così tanto, dato che per ciò che è più vero mi sembra che non ci siano parole ma solo urla e grida viscerali e mai due dolori saranno uguali se non in quello che in essi conta di meno.

 

 

Ab Joi

Dove sono le armi? Io non conosco
che quelle della mia ragione:
e nella mia violenza non c’è posto
NEANCHE PER UN’OMBRA DI AZIONE
NON INTELLETTUALE. Faccio ridere
ora, se, suggerite dal sogno,
in un grigio mattino che videro
morti, e altri morti vedranno, ma per noi
non è che un ennesimo mattino, grido
parole di lotta? Non so poi
che ne sarà di me a mezzogiorno,
ma il vecchio poeta è «ab joi»
che parla, come lauzeta o storno
– e come un giovane vorrebbe morire.

Dove sono le armi? Non ritornano
i vecchi giorni lo so, ogni aprile
rosso, di gioventù, è passato.
Solo un sogno, di gioia, può aprire
una stagione di dolore armato.
Io che fui un partigiano inerme
– un mistico, imberbe Innominato –
adesso sento nella vita il germe
orrendamente profumato della Resistenza.
[…]
P. P. Pasolini, “Vittoria”

 

L’elogio funebre di Moravia

 

Che cos’è la filosofia

 

Stifter è un maestro del kitsch, diceva Reger. In ogni pagina di Stifter c’è tanto kitsch da poter soddisfare parecchie generazioni di suore ed infermiere assetate di poesia.
[…] In effetti Stifter mi ricorda continuamente Heidegger, quel ridicolo filisteo nazionalsocialista coi pantaloni alla zuava. Se Stifter, con incredibile sfrontatezza, ha annegato nel kitsch l’alta letteratura, Heidegger, il filosofo della Foresta Nera Heidegger, ha annegato nel kitsch la filosofia… Heidegger, sulle cui orme si sono mosse le generazioni della guerra e del dopoguerra, sommergendolo con stupide e disgustose tesi di dottorato quando ancora era in vita, Heidegger me lo vedo sempre seduto sulla panchina davanti a casa sua nella Foresta Nera accanto a sua moglie, la quale, nel suo perverso entusiasmo per il lavoro a maglia, lavora ininterrottamente per confezionargli le calze invernali con la lana che lei stessa ha tosato dalle loro pecore heideggeriane […] Heidegger aveva un volto ordinario, non un volto dal quale trapelasse l’ingegno, era un essere del tutto sprovvisto d’ingegno, assolutamente privo di fantasia, assolutamente privo di sensibilità, un ruminante della filosofia tipicamente tedesco […] La fotografia di Heidegger coi pantaloni ala zuava infeltriti davanti alla finta casamatta a Todtnauberg, mi è del resto rimasta in mente come una foto più che rivelatrice. Il filisteo del pensiero, con il berretto nero della Foresta Nera in testa, testa in cui non ribolliva comunque nient’altro che l’imbecillità tedesca, così Reger […] Heidegger era un imbonitore della filosofia, uno che portava al mercato solo merce rubata, tutta la merce di Heidegger è di seconda mano, Heidegger era ed è il prototipo del pensatore per imitazione al quale mancava tutto, ma proprio tutto, per pensare con la propria testa. Il metodo di Heidegger consisteva nel ridurre senza alcun riguardo le grandi idee altrui alle proprie piccole piccole idee, proprio così. Heidegger ha rimpicciolito ogni cosa grande in modo tale da ridurla alla portata dei tedeschi, mi capisce, aalla portata dei tedeschi, diceva Reger.
[…] Heidegger e Stifter non valgono praticamente niente, anche se io colloco Stifter più in alto di Heidegger che ho sempre trovato repellente, perché in Heidegger mi ha sempre disgustato tutto, non soltanto il berretto da notte in testa e i mutandoni invernali tessuti a mano e stesi sulla stufa che lui stesso si accendeva a Todtnauberg, non soltanto il suo bastone da passeggio della Foresta Nera tagliato in casa, ma per l’appunto la sua filosofia della Foresta Nera fatta in casa, tutto in quest’uomo tragicomico mi ha sempre disgustato, tutto mi ha sempre profondamente ripugnato al solo pensiero; mi è bastato conoscere una riga di Heidegger per esserne disgustato, ma soltanto quando l’ho letto ho capito, diceva Reger… Quel niente è senza fondamento è la cosa più ridicola, così Reger: ma sui tedeschi fa colpo la vanagloria, diceva Reger, i tedeschi hanno una particolare propensione alla vanagloria, e questa è una delle loro qualità più spiccate. E quanto agli austriaci, in tutte queste cose sono peggio ancora.

Thomas Bernhard, “Antichi Maestri”

 

 

 

Se un tentativo biografico intende realmente spingersi a fondo nella comprensione della vita psichica del proprio eroe, non può passare sotto silenzio, come succede per discrezione o falso pudore nella maggior parte delle biografie, l’attività e le caratteristiche sessuali specifiche del soggetto. […] come se Eros soltanto, che conserva ogni cosa vivente, non fosse argomento degno della brama di sapere del ricercatore.

Sigmund Freud, “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci”

 

 

Cuius regio

averroè

Benozzo Gozzoli, Trionfo di San Tommaso (part.: trionfo di Tommaso su Averroè), 1470/75, Museo del Louvre, Parigi

Siccome il principale fine delle Scritture è quello di occuparsi della maggioranza, senza per altro dimenticare l’elite, i metodi prevalenti nell’ambito della religione sono quelli propri della maggioranza […] In generale, tutto ciò che qui richiede un’interpretazione allegorica può essere compreso solo per via dimostrativa, ed è preciso dovere dell’elite applicarvisi. Dovere delle masse è invece quello di prenderle secondo il senso letterale, sia per quanto riguarda i concetti che per quanto riguarda i giudizi, poiché la natura delle masse non è in grado di superare questo livello.
[…] Se si fa partecipe delle interpretazioni allegoriche qualcuno che non è in grado di comprenderle, soprattutto se se tratta di conclusioni dimostrative lontane dal senso comune […] si distrugge il senso letterale nella mente di chi è capace di comprendere solo quello, si induce costui alla miscredenza soprattutto se si dibattono i principi della religione.

Dunque non bisogna rivelare le interpretazioni allegoriche alle masse […] Alle masse, ripeto, non bisogna commentare queste cose. E quando di un’affermazione non è chiaro se il suo senso letterale sia evidente alle masse oppure se richieda un’interpretazione cui le masse non possono pervenire, da questo assunto si deve concludere che l’interpretazione la conosce solo Dio. […] Lo stesso atteggiamento si deve riservare a tutte le questioni astruse che le masse non hanno la capacità di comprendere […] Perciò colui che propala le interpretazioni allegoriche presso la gente impreparata a riceverle è un miscredente che incita alla miscredenza […] Si comportano così ai nostri giorni alcuni che si credono filosofi e che con la loro meravigliosa sapienza giungono a conclusioni affatto discordanti con la Legge […] e divengono propagandisti presso il volgo di credenze che inducono al pervertimento e sono causa di perdizione per le masse e per se stessi, in questo mondo e nell’altro.

Averroè, “Il trattato decisivo sull’accordo della religione con la filosofia”

 

Bando di espulsione dei moriscos
dal Regno di Valencia (1609)

 

 

 

Il Filosofo

POPOVA

Liubov Popova, Ritratto di filosofo, Museo Statale Russo, San Pietroburgo

Rembrandt

Van Rijn Rembrandt, Filosofo in meditazione, Museo del Louvre, Parigi

 

The Philosopher

And what are you  that, wanting you,
I should be kept awake
As many nights as there are days
With weeping for your sake?

And what are you that, missing you,
As many days as crawl
I should be listening to the wind
And looking at the wall?

I know a man that’s a braver man
And twenty men as kind
And what are you, that you should be
The one man in my mind?

Yet women’s ways are witless ways,
As any sage will tell, –
And what am I, that I should love
So wisely and so well?

Edna St. Vincent Millay

[E cosa sei tu che, desiderandoti,
io dovrei restare insonne
tante notti quanti sono i giorni
piangendo per amor tuo?

E cosa sei tu che, perdendoti,
io rimarrei ad ascoltare il vento
per un vespaio di giorni
fissando il muro?

Conosco un uomo molto più galante
e una ventina altrettanto amabili,
e cosa sei tu, per essere
l’unico uomo nella mia mente?

Certo le donne si comportano
in modo sciocco – così dicono i saggi -,
e cosa sono io, perché debba amare
tanto saggiamente e tanto per bene?]

 

 

L’Aforista

Era uno che scriveva aforismi, esistono di lui innumerevoli aforismi, pensai, ma c’è da supporre che li abbia distrutti, io scrivo aforismi, diceva di continuo, pensai, è un’arte deteriore tipica di quelli che intellettualmente hanno il fiato corto, della quale hanno vissuto e vivono un certo numero di persone soprattutto in Francia, si tratta dei cosiddetti filosofi di mezza tacca che scrivono per i comodini da notte delle infermiere, potrei anche chiamarli filosofi da almanacco, gente che scrive cose che vanno bene per tutti e le cui massime, con l’andar del tempo, troveremo affisse alle pareti di ogni sala d’aspetto dei nostri medici. I cosiddetti aforismi negativi sono altrettanto repellenti dei cosiddetti aforismi positivi. Eppure non sono riuscito a togliermi questa abitudine di scrivere aforismi, in verità temo proprio di averne ormai scritti a milioni, così diceva, pensai, e faccio bene a procedere alla loro distruzione, perché non intendo veder un giorno tappezzate coi miei aforismi, come con Goethe, Lichtenberg e compagni, le pareti delle camere d’ospedale o delle sacrestie, così diceva, pensai. Siccome non sono nato per essere filosofo, mi sono trasformato, devo dire non del tutto inconsapevolmente, in un autore di aforismi, in uno di quei repellenti compagni di strada dei filosofi come ce n’è a migliaia, così diceva, pensai. Si tratta di imbrogliare l’umanità intera con piccolissime trovate che mirano a effetti grandiosi, così diceva, pensai. In sostanza non sono altro che un pericolo pubblico, uno di quegli autori di aforismi che nella loro sconfinata impudenza e inguaribile sfacciataggine si confondono tra i filosofi come i cervi volanti tra i cervi, così diceva, pensai. Se smettiamo di bere moriamo di sete, se smettiamo di mangiare moriamo di fame, diceva, da sentenze di tal fatta hanno origine tutti gli aforismi, può averli scritti perfino Novalis, anche Novalis ha detto un mucchio di sciocchezze, così lui, pensai. Nel deserto aneliamo all’acqua, suonano all’incirca le massime di Pascal, così lui, pensai. A essere esatti, dei più grandi progetti filosofici quello che rimane a noi non è altro che un misero retrogusto aforistico, così diceva, pensai, quale che sia la filosofia e chiunque sia il filosofo di cui ci stiamo occupando, tutto si riduce in briciole quando li affrontiamo con tutte le facoltà di cui siamo dotati, ossia con tutti i nostri strumenti intellettuali, così diceva, pensai.

Thomas Bernhard, “Il soccombente”

 

 

Grammatica

Mio padre fece il giro della stanza, poi si sedette e finì il capitolo.
– I verbi ausiliari di cui noi ci occupiamo qui ora – continuò mio padre – sono: io sono, ero; ho; avevo; faccio; feci; patisco; agivo; lascio; posso; potevo; voglio; volevo; devo; dovevo; era sua abitudine; è abituato. Essi variano nei tempi: presente, passato, futuro, e sono coniugati con il verbo vedere, o sono corredati di queste espressioni: è ciò?; era ciò?; sarà ciò?; sarebbe ciò?; può essere?; potrebbe essere? E le stesse espressioni, ma in forma negativa: non è ciò?; non era ciò?; non potrà essere? O in forma affermativa: è; era; dovrebbe essere. O storicamente: è sempre stato? Ultimamente? Quanto tempo fa? O in forma ipotetica: se fosse? se non fosse? Che cosa accadrebbe? Se i francesi battessero gli inglesi? Se il sole uscisse dallo Zodiaco?
Ora – continuò mio padre – con il giusto uso e la retta applicazione di questi ausiliari, nei quali dovrebbe venire esercitata la memoria del bambino, non entra idea nel suo cervello, per quanto povero, dalla quale egli non possa trarre una quantità di concetti e conclusioni.
– Hai mai visto un orso bianco? – esclamò mio padre, volgendo il capo dalla parte di Trim, che gli stava alle spalle, dietro la sedia. – No, Vostro Onore – rispose il caporale.
– Ma potresti parlarne, Trim, se fosse necessario? – disse mio padre.
– Ma, fratello, com’è possibile se non ne ha mai visto uno? – disse lo zio Toby.
– Questo è quel che voglio – replicò mio padre – ed ecco le possibilità che ne derivano:
UN ORSO BIANCO! Benissimo. Ne ho mai visto uno? Ne avrei mai potuti vedere? Ne vedrò mai uno? Dovrò mai vederne uno? O potrò mai vederne uno?
Avessi visto un orso bianco! (Se no, come posso immaginarmelo?)
Se dovessi vedere un orso bianco, cosa direi? E se non lo vedessi, che altro direi? Se non ho mai visto, o posso o devo, vedere un orso bianco vivo, ne vedrò mai almeno la pelle? Ne ho mai visto uno dipinto? Ne ho mai sentito la descrizione? Non ne ho mai sognato uno?
Mio padre, mia madre, mio zio, mia zia, i miei fratelli o le mie sorelle, hanno mai visto un orso bianco? Che cosa darebbero per vederne uno? Come si comporterebbero? Come si comporterebbe l’orso bianco? È selvaggio? Addomesticato? Terribile? Dal pelo irto? Dal pelo morbido?
Val la pena di vedere un orso bianco?
Non si fa peccato?
È migliore di UN ORSO NERO?

Laurence Sterne, “La vita e le opinioni di Tristam Shandy, gentiluomo”

 

 

Vers le silence

Pour conclure et avant d’en arriver sagement moi-même au silence complet, je répondrai, à peine un peu moins ludiquement, sur cette question du texte le plus bref, que celui auquel nous devons nous préparer, que nous devons peaufiner de façon qu’il dise vraiment le plus de choses en le moins de mots possible, oui, de façon qu’il résume toute une vie en quelques syllabes à peine, ce texte brévissime, donc, cet aphorisme supérieur, accomplissement de toute une oeuvre d’écrivain, et aussi le dernier sans doute qu’un homme puisse écrire: c’est son épitaphe.

Dominique Noguez

 

 

L’animale

Il serpente

Mosaico nella Chiesa delle Suore Orsoline Figlie di Maria Immacolata, Verona

Snake

A snake came to my water-trough
on a hot, hot day, and I in pyjamas for the heat,
To drink there.
In the deep, strange-scented shade of the great dark carob-tree
I came down the steps with my pitcher
And must wait, must stand and wait, for there he was at the trough before
me.
He reached down from a fissure in the earth-wall in the gloom
And trailed his yellow-brown slackness soft-bellied down, over the edge of
the stone trough
And rested his throat upon the stone bottom,
And where the water had dripped from the tap, in a small clearness,
He sipped with his straight mouth,
Softly drank through his straight gums, into his slack long body,
Silently.
Someone was before me at my water-trough,
And I, like a second comer, waiting.
He lifted his head from his drinking, as cattle do,
And looked at me vaguely, as drinking cattle do,
And flickered his two-forked tongue from his lips, and mused a moment,
And stooped and drank a little more,
Being earth-brown, earth-golden from the burning bowels of the earth
On the day of Sicilian July, with Etna smoking.
The voice of my education said to me
He must be killed,
For in Sicily the black, black snakes are innocent, the gold are venomous.
And voices in me said, If you were a man
You would take a stick and break him now, and finish him off.
But must I confess how I liked him,
How glad I was he had come like a guest in quiet, to drink at my water-trough
And depart peaceful, pacified, and thankless,
Into the burning bowels of this earth?
Was it cowardice, that I dared not kill him?
Was it perversity, that I longed to talk to him?
Was it humility, to feel so honoured?
I felt so honoured.
And yet those voices:
If you were not afraid, you would kill him!
And truly I was afraid, I was most afraid, But even so, honoured still more
That he should seek my hospitality
From out the dark door of the secret earth.
He drank enough
And lifted his head, dreamily, as one who has drunken,
And flickered his tongue like a forked night on the air, so black,
Seeming to lick his lips,
And looked around like a god, unseeing, into the air,
And slowly turned his head,
And slowly, very slowly, as if thrice a dream,
Proceeded to draw his slow length curving round
And climb again the broken bank of my wall-face.
And as he put his head into that dreadful hole,
And as he slowly drew up, snake-easing his shoulders, and entered farther,
A sort of horror, a sort of protest against his withdrawing into that horrid black hole,
Deliberately going into the blackness, and slowly drawing himself after,
Overcame me now his back was turned.
I looked round, I put down my pitcher,
I picked up a clumsy log
And threw it at the water-trough with a clatter.
I think it did not hit him,
But suddenly that part of him that was left behind convulsed in undignified haste.
Writhed like lightning, and was gone
Into the black hole, the earth-lipped fissure in the wall-front,
At which, in the intense still noon, I stared with fascination.
And immediately I regretted it.
I thought how paltry, how vulgar, what a mean act!
I despised myself and the voices of my accursed human education.
And I thought of the albatross
And I wished he would come back, my snake.
For he seemed to me again like a king,
Like a king in exile, uncrowned in the underworld,
Now due to be crowned again.
And so, I missed my chance with one of the lords
Of life.
And I have something to expiate:
A pettiness.

D.H.Lawrence (Taormina, 1923)

[Un serpente venne alla mia vasca di pietra
Un giorno di canicola, io in pigiama nell’afa,
Per bere.
Nella profonda ombra stranamente profumata del grande carrubo scuro
Scesi i gradini con la mia brocca
E dovetti aspettare, dovetti sostare ed aspettare, perché egli era lì alla vasca prima di me.
Sbucò fuori da una crepa del muro di terra nell’ombra
E scivolò giù portando la giallo-bruna mollezza del soffice ventre sopra l’orlo della vasca di pietra,
E posò la gola sul fondo di pietra,
E dove l’acqua era gocciolata dal rubinetto, in una piccola pozza chiara,
Prese a sorseggiare con la sua stretta bocca,
Pian piano a bere attraverso le strette gengive, colando l’acqua entro il lento corpo molle,
Silenziosamente.
Qualcuno era giunto prima di me alla mia vasca.
Ed io, da secondo arrivato, attendevo.
Egli levò il capo dal beveraggio, come fanno gli armenti,
E mi guardò vago, come fanno gli armenti che s’abbeverano,
E fece vibrare tra le labbra la lingua bifida, e rifletté un momento,
E si chinò e bevve un altro poco,
Bruno come la zolla, dorato come la zolla, uscito dalla viscere infocate della terra
Nel giorno del luglio siciliano, con l’Etna che fumava.
La voce della mia culture mi disse
Che doveva essere ucciso,
Perché in Sicilia i serpenti tutti neri sono innocui, i dorati velenosi.
E voci dicevano in me:
Se tu fossi un uomo
Prenderesti un bastone e gli spezzeresti la schiena, ora, e lo finiresti.
Ma devo confessare quanto mi piacesse,
Quant’ero felice ch’egli fosse venuto come un ospite in tutta pace a bere nella mia vasca
E se ne tornasse in pace, appagato, senza ringraziare,
Entro le viscere infocate di quella terra?
Era paura, che io non osassi ucciderlo?
Era perversione che io desiderassi parlargli?
Era umiltà sentirmi tanto onorato?
Perché io mi sentivo tanto onorato.
E quelle voci, ancora:
Se non avessi paura, l’uccideresti!
E in verità ero spaventato, molto spaventato,
Ma onorato ancora di  più, tuttavia,
Ch’egli avesse cercato la mia ospitalità
Dalla porta oscura della terra segreta.
Bevve abbastanza,
E levò il capo, trasognato, come uno un po’ sbronzo,
E fece vibrare la lingua come una bifida notte nell’aria, così nera,
E parve si leccasse le labbra,
E si guardò intorno come un dio, senza vedere, nell’aria,
E lentamente volse il capo,
E lentamente, molto lentamente, come tre volte trasognato,
Si mise a strisciare in tutta la sua lenta lunghezza ad arco di cerchio
E a risalire la parete screpolata del mio muro.
E mentre infilava il capo in quell’orrido buco,
Mentre lentamente saliva, insinuava le spalle serpigne e penetrava più addentro,
Una sorte di orrore, una sorte di protesta contro quel suo ritrarsi entro l’orrida crepa nera,
Contro quel suo deliberato ritorno nella tenebra, e quel lento trainarsi dietro tutto il suo corpo,
Mi sopraffece, ora che mi voltava il dorso.
Mi guardai intorno, posai la mia brocca,
Raccolsi un grosso ceppo informe
E lo scagliai contro la vasca, con fragore.
Credo che non lo colpisse.
Ma subito la parte di lui che ancora rimaneva fuori
Fu presa da un convulso d’indecorosa precipitazione,
Guizzò come un baleno, e sparì
Nel buco nero, nella crepa dalle labbra di terra,
E nell’intenso meriggio immoto, io rimasi a fissare il muro, affascinato.
E immediatamente mi pentii,
Pensai quanto vile, volgare, miserabile il mio gesto!
Disprezzai me stesso e le voci della mia dannata cultura d’uomo.
Pensai all’albatro,
E desiderai che ritornasse, lui, il mio serpente.
Perché ora egli mi parve nuovamente simile a un re,
A un re senza corona in esilio nel mondo sotterraneo,
A cui era dovuta ora una nuova incoronazione.
E così perdetti la mia ora con uno dei signori della vita.
Ed ho qualcosa da espiare:
Una meschinità.]

 

 

L’amazzone 1

guerra

Henri Rousseau, La guerra, Musée d’Orsay, Parigi

[…] a me non è concessa l’arte più soave delle donne! Non mi è dato, come alle figlie della tua terra, scegliermi l’amato durante una festa cui tutto il fiore della gioventù confluisce per gareggiare in giocondi esercizi; né mi è dato di attirarlo a me disponendo in questo o quel modo il mio mazzolino o lanciandogli sguardi pudìchi; né quando risplende il mattino, nel bosco di melograni pervaso dei canti dell’usignolo, mi è dato, abbandonandomi sul suo petto, di confessargli che è lui.
Io devo cercarlo sul campo sanguinoso della battaglia, il giovane eletto dal mio cuore, e catturare con braccia di bronzo colui che questo morbido seno dovrà accogliere.

Henrich von Kleist,“Pentesilea”

 

 

L’amazzone 2

Oscar Kokoschka, Morder, Hoffnun der Frauen, (Assassino, speranza delle donne), manifesto 1909

Oskar Kokoschka, manifesto per la prima di Mörder, Hoffnung der Frauen (Assassino, speranza delle donne), 1909

Sembrava nata dall’usignolo che abita presso il tempio di Diana. Posava là, cullandosi sulla cima di una quercia. E gorgheggiava, e flautava, e gorgheggiava, attraverso la notte silenziosa, e al viandante che l’ascoltava da lontano il petto si gonfiava di commozione. Non schiacciava il verme maculato che strisciava sotto le suole dei suoi calzari; la freccia che colpiva il petto di un cinghiale, lei la richiamava indietro, lo sguardo spezzato della bestia morente avrebbe potuto farla cadere in ginocchio, straziata dal rimorso…
Ora sta là in silenzio, la donna atroce, accanto al suo cadavere, mentre la muta le va annusando intorno; reggendo sulla spalla l’arco vittorioso guarda fisso nell’infinito come se fosse un foglio bianco, e tace. Con i capelli ritti le domandiamo: Che cosa hai fatto? Lei tace. Ci riconosci? Tace. Vuoi seguirci? Tace.

Henrich von Kleist, “Pentesilea”

 

 

Küsse/Bisse

E. Munch, Vampire (1894), Munch-Museet, Olso

[…]
Pentesilea: Furono i miei baci a ucciderlo!?
Sacerdotessa: Oh cielo!
P: No! No! Non lo baciai? Lo uccisi dunque? PARLA!
S: Ahi, ahi, te lo grido ancora: ahi te! Che ti copra la notte eterna per sempre!
P: Fu dunque un errore! Baci o morsi! Chiunque ami con tutto il cuore può confondere gli uni con gli altri.
[…]

Henrich von Kleist, “Pentesilea”

 

Pablo Picasso, Il Bacio, Musèe National Picasso, Parigi

 

Pochi, pochissimi tra i più vitali, vivono l’amore come noi. Mostri così pericolosi, quali il pescecane e la sua femmina, sono costretti ad avvicinarsi. La natura ha imposto loro il pericolo di baciarsi: bacio terribile e guardingo. Abituati a divorare, inghiottire tutto alla cieca (animali, legno, pietre, qualsiasi cosa) in tale circostanza, cosa mirabile, se ne astengono. Per quanto appetitosi possano essere l’uno per l’altra, avvicinano senza ferirsi la loro sega, i loro denti mortali. La femmina, intrepidamente, si lascia agganciare, domare dai terribili rampini che lui le getta. E, in effetti, non viene divorata. È lei che lo prende e lo porta con sé. Uniti, i mostri furiosi rotolano così per settimane intere, non potendo, benché affamati, rassegnarsi al divorzio né staccarsi l’uno dall’altra, e persino in piena tempesta continuano, invincibili, inalterabili, nel loro fiero amplesso.

Jules Michelet, “Il mare”

 

 

Paula_Modersohn-Becker-1906Paula Modersohn Becker, Autoritratto con collana di ambra (1906), Kunsthandel Wolfgang Werner KG, Bremen/Berlin.

Requiem per un’amica

(in morte di Paula Becker)

Ho morti, e li ho lasciati andare
e stupivo a vederli così in pace,
così presto accasati nella morte, così giusti,
così diversi dalla loro fama. Solo tu torni
indietro; mi sfiori, ti aggiri, vuoi
cozzare in qualcosa che risuoni di te
e ti riveli. Oh, non prendermi quel che
lentamente imparo. Io ho ragione; e tu sbagli
se hai, commossa, nostalgia di
cose. Noi le trasformiamo;
esse non sono qui, le riflettiamo in noi
dal nostro essere, appena le riconosciamo.
Ti credevo assai più avanti. Mi sconcerta
che erri e ritorni proprio tu, che hai trasformato
più di ogni altra donna.
[…]
Dimmi, devo mettermi in viaggio? Hai abbandonato
in qualche posto una cosa che si affligge
e che ti vuole seguire? Devo raggiungere un paese
che non vedesti benché ti fosse affine
quanto l’altra metà dei tuoi sensi?
Navigherò i suoi fiumi, scenderò
a terra e chiederò di costumanze antiche,
parlerò con le donne all’uscio
e le starò a guardare mentre chiamano i figli.
[…]
Dai giardinieri mi farò elencare
molti fiori, così che con i frammenti
di quei bei nomi io riporti qui
un resto delle centinaia di profumi.
E frutti comprerò, frutti dove la terra
si ritrova ancora, fino al cielo.
Perché la capivi tu, la pienezza dei frutti.
Li posavi su piatti innanzi a te
e controbilanciavi con i colori il loro peso.
E come frutti vedevi anche le donne
e così vedevi i bimbi, dall’interno
spinti nelle forme del loro esistere.
E vedevi te stessa infine come un frutto,
ti cavavi fuori dai tuoi vestiti, ti portavi
davanti allo specchio, vi penetravi
fino allo sguardo; questo rimaneva grande lì davanti
e non diceva: questa sono io, ma: questo è.
Così privo di curiosità era infine il tuo sguardo
e così senza possesso, di così vera povertà,
che non desiderava più nemmeno te: santo.
Così voglio serbarti, come t’introducevi
nello specchio, profondamente dentro
e via da tutto. Perché vieni diversa?
Perché ti smentisci? Cosa vuoi darmi
a intendere, che in quelle perle d’ambra
attorno al collo resti un po’ della gravezza
di quel peso che non c’è mai
nelle immagini ferme dell’aldilà; cosa mi mostri,
un cattivo presagio nel tuo contegno;
cosa ti muove a esporre i contorni
del tuo corpo come le linee di una mano,
così che io non possa più vederli senza destino?
[…]
Non tornare. Se lo sopporti, sii
morta tra i morti. I morti hanno molto da fare.
Ma aiutami lo stesso, senza che ciò ti distragga,
come mi aiuta a volte quello ch’è più lontano: in me.

Rainer Maria Rilke (Parigi, 31/10 – 3/11 1908)

 

 

Diesseits/Jenseits

isola

Plutôt la vie que ces prismes sans épaisseur même si les couleurs sont plus pures
Plutôt que cette heure toujours couverte que ces terribles voitures de flammes froides
Que ces pierres blettes
Plutôt ce cœur à cran d’arrêt
Que cette mare aux murmures
Et que cette étoffe blanche qui chante à la fois dans l’air et dans la terre
Que cette bénédiction nuptiale qui joint mon front à celui de la vanité totale
Plutôt la vie

Plutôt la vie avec ses draps conjuratoires
Ses cicatrices d’évasions
Plutôt la vie plutôt cette rosace sur ma tombe
La vie de la présence rien que de la présence
Où une voix dit Es-tu là où une autre répond Es-tu là
Je n’y suis guère hélas
Et pourtant quand nous ferions le jeu de ce que nous faisons mourir
Plutôt la vie

Plutôt la vie plutôt la vie Enfance vénérable
Le ruban qui part d’un fakir
Ressemble à la glissière du monde
Le soleil a beau n’être qu’une épave
Pour peu que le corps de la femme lui ressemble
Tu songes en contemplant la trajectoire tout du long
Ou seulement en fermant les yeux sur l’orage adorable qui a nom ta main
Plutôt la vie

Plutôt la vie avec ses salons d’attente
Lorsqu’on sait qu’on ne sera jamais introduit
Plutôt la vie que ces établissements thermaux
Où le service est fait par des colliers
Plutôt la vie défavorable et longue
Quand les livres se refermeraient ici sur des rayons moins doux
Et quand là-bas il ferait mieux que meilleur il ferait libre oui
Plutôt la vie

Plutôt la vie comme fond de dédain
A cette tête suffisamment belle
Comme l’antidote de cette perfection quelle appelle et qu’elle craint
La vie le fard de Dieu
La vie comme un passeport vierge
Une petite ville comme Pont-à-Mousson
Et comme tout s’est déjà dit

Plutôt la vie

André Breton

[Piuttosto la vita che quei prismi senza spessore anche se i colori sono più puri
Piuttosto che quell’ora sempre coperta che quelle orribili vetture di fiamme fredde
Che quelle pietre fradice
Piuttosto il cuore a serramanico
Che questo stagno mormorante
Che questa stoffa bianca che canta e nell’aria e nella terra
Che questa benedizione nuziale che unisce la mia fronte a quella della vanità totale
Piuttosto la vita

Piuttosto la vita coi suoi drappi congiuratori
Le sue cicatrici d’evasioni
Piuttosto la vita piuttosto questo rosone sulla mia tomba
La vita della presenza nient’altro che della presenza
Dove una voce dice Sei qui dove un’altra risponde Sei qui
Quasi non ci sono purtroppo
E tuttavia quand’anche facessimo il gioco di ciò che facciamo morire
Piuttosto la vita

Piuttosto la vita piuttosto la vita Infanzia venerabile
Il nastro che parte da un fachiro
Rassomiglia alla guida di scorrimento del mondo
Sebbene il sole non sia che un relitto
Per poco che il corpo della donna gli rassomigli
Tu sogni contemplando lungo tutta la traiettoria
O solamente chiudendo gli occhi sull’adorabile uragano che si chiama la tua mano
Piuttosto la vita

Piuttosto la vita con le sue sale d’attesa
Quando si sa che non si sarà mai introdotti
Piuttosto la vita che quegli edifici termali
Dove il servizio è fatto da collari
Piuttosto la vita sfavorevole e lunga
Quand’anche i libri si richiudessero qui su meno dolci scaffali
Quand’anche laggiù si stesse meglio del meglio si stesse liberi sì
Piuttosto la vita

Piuttosto la vita come sfondo di disprezzo
A questa testa sufficientemente bella
Come l’antidoto di quella perfezione ch’essa chiama e teme
La vita il trucco di Dio
La vita come un passaporto vergine
Una cittadina come Pont-à-Mousson
E giacché tutto è già stato detto
Piuttosto la vita]

 

 

A Vienna! A Vienna!

[…] e pensavo, durante la corsa, che questa città che stavo attraversando, per tremenda che mi sembrasse adesso come in passato, era la città migliore per me, che questa Vienna che odiavo e ho sempre odiato era adesso tutt’a un tratto la città migliore, e che le persone che ho sempre odiato e odio adesso e sempre odierò sono tuttavia le persone migliori, che io le odio ma sono commoventi, che Vienna la odio ma Vienna è commovente, che queste persone le maledico ma non posso fare a meno di amarle, e mentre correvo, correvo, giunto ormai nel centro della città, pensavo che questa città è comunque la mia città e che queste persone sono comunque le mie persone e sempre lo saranno, e correvo, correvo, e pensavo che come sono riuscito a mettermi in salvo da molte altre atrocità, anche da questa atroce cosiddetta cena artistica nella Gentzgasse sono riuscito a mettermi in salvo, e su questa cosiddetta cena artistica nella Gentzgasse io scriverò, pensavo, senza sapere che cosa, semplicemente ci scriverò sopra qualcosa, e correvo, correvo, e pensavo, scriverò subito su questa cosiddetta cena artistica nella Gentzgasse, non importa che cosa, solo subito, pensavo, immediatamente scriverò qualcosa su questa cena artistica nella Gentzgasse, subito, pensavo, immediatamente, continuavo a pensare, e intanto attraversavo di corsa il centro della città, subito e immediatamente e subito e subito, prima che sia troppo tardi.

Thomas Bernhard

 

 

Una sola cosa ricordo di quei lunghi mesi di letto.
Il flusso incessante dei ricordi sulle innumerevoli ore trascorse in cerca di una risposta alla domanda che mi ponevo:
«Ma c’è proprio stata la vita? O invece è stato solo un lasciapassare per trascorrere a gran velocità i successivi dieci o venti minuti, un giorno, una settimana, un mese?».
C’è stata la vita.
E vissuta intensamente, con gioia, con tormento, e, a volte, stupendamente.
Una vita sempre piena di colore.
Tale che forse non la cambierei con nessun’altra.
Ed eccomi pervaso da un desiderio irrefrenabile di afferrare, trattenere, fissare sulla carta questi attimi di «tempo perduto».
Attimi che hanno sempre conosciuto la propria attesa,
il ricordo di sé, l’impazienza irrequieta mentre venivano vissuti.
Io sono passato per un’epoca che non ha precedenti. Ma non voglio parlare dell’epoca.
Voglio annotare, invece, come un uomo medio passi attraverso una grande epoca come fosse un contrappunto del tutto imprevisto.
Come uno può «lasciare passare inosservata» una data storica che gli sfiora la manica.

Sergej Ejzenštejn

 

 

Beneath

Gregory Crewdson, Beneath the roses, 2005

Erode: … Presto, presto, toglietemi il manto. No, no, lasciatelo. È la corona che mi opprime, la corona di rose. Come se questi fiori fossero di fuoco. Mi hanno bruciato la fronte. Ah! ecco, così respiro. Come sono rossi questi petali! Sembrano macchie di sangue sulla tovaglia. Ma non vuol dire nulla. Non bisogna cercare simboli in tutto ciò che si vede. La vita diventerebbe impossibile. Sarebbe meglio dire che le macchie di sangue sono belle come petali di rose. Sarebbe assai meglio dire così.

Oscar Wilde, “Salomè”

 

 

L’Occidente inumidisce di senso ogni cosa, alla maniera di una religione autoritaria che imponga il battesimo all’intera popolazione […].
Beninteso, se si rinunciasse alla metafora o al sillogismo, il commento diverrebbe impossibile […] Decifranti, formalizzanti o tautologiche, le vie dell’interpretazione, destinate qui da noi a svelare il senso, cioè a farlo entrare con l’effrazione – e non a scuoterlo, a farlo cadere, come il dente del rimasticatore dell’assurdo, quale deve essere l’apprendista zen, alle prese con il suo koan – le vie dell’interpretazione non possono dunque che sciupare lo haiku: perché il lavoro di lettura che vi è connesso è quello di sospendere il linguaggio, non di provocarlo; impresa di cui per l’appunto il maestro dello haiku, Bashô, sembrava conoscere bene la difficoltà e la necessità:

haiku

Come è ammirevole
Colui che non pensa
«La vita è effimera»
Vedendo un lampo

Roland Barthes

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