expoanch’io

 

 

 

IL FAUT BIEN MANGER

 

Se ora il limite tra vivente e non vivente sembra altrettanto poco sicuro, almeno come limite opposizionale, di quello tra l'”uomo” e l'”animale”, e se nell’esperienza (simbolica o reale), del “mangiare-parlare-interiorizzare”, la frontiera etica non passa più rigorosamente tra il “tu non ucciderai” (l’uomo, il tuo prossimo) e il “tu non metterai a morte il vivente in generale”, ma tra più modi, infinitamente differenti, della concezione-appropriazione-assimilazione dell’altro, allora, quanto al “Bene” di tutte le morali, la questione ridiventa: come determinare la maniera migliore, la più rispettosa e la più riconoscente, la più “donante” anche, di rapportarsi all’altro e di rapportare l’altro a sé. Per tutto ciò che passa al bordo degli orifizi (dell’oralità ma anche del’orecchio, dell’occhio – e di tutti i “sensi” in generale) la metonimia del “ben mangiare” sarà sempre la regola. La questione non è più di sapere se è “buono” o “bene” mangiare l’altro, e quale altro. Lo si mangia in ogni modo e ci si lascia mangiare da lui.
[…] Io non so più, a questo punto, chi è “chi” e neppure cosa vuol dire “sacrificio”; per determinare questa parola, conservo soltanto questo indice: il bisogno, il desiderio, l’autorizzazione, la giustificazione della messa a morte, la morte data come denegazione dell’assassinio. La messa a morte dell’animale, dice questa denegazione, non sarebbe un assassinio.

Jacques Derrida

 

Quali spinose analisi ha procurato ai filosofi l’essere! È uno o molteplice, fa tutt’uno con il pensatore o è diverso dal nulla del pensiero? Inutili questioni! L’essere fa tutt’uno con il mangiare; essere significa mangiare; ciò che è (ist) mangia (isst) e viene mangiato. Mangiare è la forma soggettiva, attiva, esser mangiato la forma oggettiva, passiva dell’essere, ma entrambe sono inseparabili. Soltanto nel mangiare perciò si riempie il vuoto concetto di essere e diventa palese l’assurdità della questione se l’essere e il non-essere, ossia se il mangiare e la fame si identifichino.

Ludwig Feuerbach

 

 

libro delle bestie

In una bella pianura dove passava un bel fiume c’erano molte bestie che volevano eleggere il re. La maggioranza si era accordata perchè il re fosse il Leone, ma il Bue si opponeva fortemente a questa scelta, e disse queste parole:
– Signori, alla nobiltà del re conviene la bellezza della persona, che sia grande, umile, e che non rechi danno alla sua gente. Il Leone non è una gran bestia, nè una bestia che vive di erba, anzi mangia le altre bestie. Il Leone ha una parola e una voce che ci fa tremare di paura, quando grida. Se seguite il mio consiglio, scegliete il Cavallo come re, perché il Cavallo è bestia grande, bella e umile; è una bestia elegante, non ha un aspetto orgoglioso e non mangia carne.
Le parole del Bue piacquero molto al Cervo, al Capriolo e al Montone e a tutte le bestie che vivevano d’erba; ma la Volpe chiese di parlare davanti a tutti e disse queste parole:
– Signori, quando Dio creò il mondo, non lo creò con l’intenzione che l’uomo fosse conosciuto e stimato, ma per essere Lui conosciuto e stimato dall’uomo; e, secondo questa intenzione, Dio volle che l’uomo fosse servito dalle bestie, e che vivesse di carne e di erba. E voi signori non dovete far caso all’intenzione del Bue, che calunnia il Leone perché mangia carne; ma bisogna seguire la regola e l’ordine che Dio ha dato e posto nelle creature.
Dall’altra parte replicò il Bue, e disse […] che la Volpe voleva che il Leone fosse il re perchè vive delle spoglie che rimangono quando il Leone ha mangiato la sua preda, più che per la nobiltà del Leone.
[…] Per la forza dell’Orso e delle altre bestie che mangiavano carne, malgrado le bestie che mangiavano erba, il Leone fu eletto re; ed egli diede licenza a tutte le bestie che vivono di carne di mangiare e vivere delle bestie che mangiano erba.

Ramon Llull

 

 

[…] io ti domando: nei nostri paesi, chi avrebbe qualche chance di diventare un capo di stato, e di accedere così “alla testa”, dichiarandosi pubblicamente, e dunque esemplarmente, vegetariano? Il capo deve essere mangiatore di carne (in vista di essere d’altronde lui stesso “simbolicamente” mangiato)*.

*Hitler stesso non ha offerto la sua pratica vegetariana come esempio. Questa affascinante eccezione può d’altronde integrare l’ipotesi che evoco qui. Un certo vegetarianesimo reattivo e compulsivo s’iscrive sempre, a titolo di denegazione, di inversione  o di rimozione, nella storia del cannibalismo.

Jacques Derrida

 

 

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Jan Brueghel il Vecchio e Peter Paul Rubens, Allegoria del gusto, Museo del Prado, Madrid

Sono solo. dopo tanti giorni di nausea e di digiuno ho fame. mangio il presciutto di San Daniele, il caviale di Lenine, gli aranci siciliani dell’insigne psichiatra Rosolino Colella, i mandarini e i bergamotti calabri di Giuseppe Scalise, gli eroici grappoli di Luigi Rizzo conte di Grado, lo zibibbo damasceno, i datteri di Candia, i lucumi d’Istambul, i saltcrakers di Arthur Symons, i parrozzi di Luigi d’Amico, la persicata di Brescia, le zangole di Comacchio, le fragole di California. i sapori, i sapori!

Gabriele D’Annunzio

 

 

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Cornelius van Haarlem, Il banchetto degli ufficiali della milizia di san Giorgio, Frans Hals Museum, Haarlem

Si dice che a tavola non si dovrebbe essere in meno del numero delle Grazie, né in più del numero delle Muse.
Se vi aggirate intorno al numero delle Muse, raddoppiate la dose.

Pellegrino Artusi

 

[…] quando gli altri lo invitarono a farlo subito, parlò così:
«Un banchetto è in in sé e per sé una cosa difficile, perché anche se è preparato con ogni possibile gusto e talento, occorre però qualcos’altro ancora, cioè la fortuna.
[…] Per prima cosa, allora, ad un banchetto non dovrebbero mai essere ammesse le donne […]  Secondo l’uso greco si possono soltanto utilizzare le donne come danzatrici. Poiché in un banchetto l’essenziale si risolve nel mangiare e nel bere, la donna non deve parteciparvi, perché essa non è in grado di fare quanto è dovuto in modo completo, e se pure ci riuscisse, non è cosa bella a vedersi.
[…] Fare un banchetto con uno zolfanello o, come l’Olandese, con un pezzo di zucchero, è qualcosa di inammissibile […] Io esigo che la fecondità della terra sia al nostro servizio, come se tutto germogliasse nel medesimo istante in cui il desiderio lo domanda. Io esigo una sovrabbondanza di vino più ridondante di quanto Mefistofele ne sappia produrre, senza di altro aver bisogno che di fare un buco nella tavola. Io esigo un’illuminazione più voluttuosa di quella dei coboldi, quando sollevano la montagna su colonne e danzano in un mare di fiamme. Io esigo ciò che più eccita i sensi, io esigo quell’amabile conforto dei profumi, più raffinato di quel che si trova nelle Mille e una notte. Esigo una frescura che voluttuosamente infiammi il desiderio e mandi un refrigerio sul desiderio appagato. Esigo il rallegramento costante di una fontana […].
Esigo una servitù scelta e bella, come se sedessi alla mensa degli dei, esigo una musica conviviale forte e nello stesso tempo smorzata ed esigo che in ogni momento essa mi sia di accompagnamento; e per quanto riguarda voi, cari amici, faccio delle richieste incredibili. Vedete, sulla base di tutte queste richieste che sono come altrettante ragioni contra, sono del parere che un banchetto sia un pium desiderium ed io sono, a questo riguardo, così lontano dal parlare di una ripetizione, che è mia opinione che esso non possa realizzarsi nemmeno una prima volta».

Sören Kierkegaard

 

 

“Bisogna ben mangiare” non vuole anzitutto dire prendere e comprendere in sé, ma apprendere e dare da mangiare, apprendere-a-dare-da mangiare-all’altro. Non si mangia mai da soli, ecco la regola di “bisogna ben mangiare”. È una legge dell’ospitalità infinita e tutte le differenze, le rotture, le guerre (possiamo pure dire le guerre di religione) hanno per posta questo ” ben mangiare” . Oggi più che mai. Bisogna ben mangiare, ecco una massima di cui basterebbe far variare le modalità e i contenuti. All’infinito. Essa dice la legge, il bisogno o il desiderio (io non ho mai creduto alla radicalità di questa distinzione talvolta utile), l’orexis, la fame e la sete (“bisogna”, “bisogna ben”), il rispetto dell’altro nel momento stesso in cui, facendone l’esperienza (io parlo qui del “mangiare” metonimico come del concetto stesso di esperienza), si deve cominciare ad identificarsi a lui, ad assimilarlo, interiorizzarlo, comprenderlo idealmente […], parlargli con parole che passano anche per la bocca, per l’orecchio e per la vista […].

Jacques Derrida

 

Chicago meatpacking workers

I mattatoi di Chicago sono uno degli spettacoli più raccapriccianti che abbia mai visto. Percorri in macchina un lunghissimo ponte di legno. Il ponte è sospeso sopra migliaia di recinti pieni di buoi, vitelli, montoni e tutti gli innumerevoli suini di questo mondo. Urli, muggiti, belati irripetibili sino alla fine del mondo, sino a quando uomini e bestiame saranno schiacciati tutti dalle rocce in movimento. Attraverso il naso tappato passa ugualmente il tanfo acidulo dell’orina di bue e dello sterco di milioni di bestie di una decina di specie.
L’odore immaginario o reale di un intero mare di sangue versato provoca giramenti di testa.
Mosche di ogni genere e calibro provenienti dal prato e dai liquami volteggiano ora intorno agli occhi delle mucche, ora intorno ai tuoi.
Lunghi corridoi di legno risucchiano le bestie scalpitanti.
Se i montoni non vi entrano da soli, ci pensa un caprone addestrato.
I corridoi terminano lì dove cominciano le lame dei mattatori di suini e bovini.
Una macchina solleva con un uncino i maiali vivi e urlanti, agganciandoli alla zampa viva, poi li appende ad una catena mobile ed essi con la testa in giù scivolano accanto a un irlandese o a un negro che gli vibra una coltellata alla gola. La guida del mattatoio affermava con orgoglio che ciascun macellaio scannava ogni giorno alcune migliaia di suini.
Mentre qui si levano urli e rantoli, dall’altra parte dello stabilimento si applicano già i piombi ai prosciutti, le scatole di latta piovono a scroscio e lampeggiano al sole, poi si caricano i frigoriferi e coi treni diretti e i bastimenti partono i prosciutti per le salumerie e i ristoranti di tutto il mondo.
Ci vogliono quindici minuti per attraversare il ponte di una sola ditta.
E da tutti i lati strillano le insegne di decine di ditte. Wilson! Star! Swift! Hammond! Armour!
Ma tutte queste ditte fanno parte, ad onta della legge, di un unico consorzio, di un unico trust. Armour è l’impresario principale del trust e dalle dimensioni della sua azienda puoi giudicare la potenza dell’intero consorzio.
Armour ha oltre centomila operai e solo gli impiegati sono dieci-quindicimila.
Il suo patrimonio ha un valore complessivo di quattrocento milioni di dollari. Ben ottantamila azionisti hanno acquistato le sue azioni, trepidano per la salute dell’azienda, ne coccolano i proprietari.
La metà degli azionisti (degli azionisti, ma non delle azioni) sono operai che hanno avuto a rate le loro azioni, un dollaro alla settimana. Con queste azioni si compra temporaneamente la sottomissione delle maestranze arretrate del mattatoio.
Armour è orgoglioso.
Lui solo produce il 60% della carne americana e il 10% di quella mondiale. Tutto il mondo mangia la carne in scatola di Armour. Chiunque può assicurarsi la gastrite.
Durante la guerra mondiale le scatole di carne con l’etichetta rinnovata erano in prima linea. A caccia di continui profitti Armour smaltiva uova di quattro anni prima e carne conservata dell’età di una recluta, venti anni!
Gli ingenui che desiderano visitare la capitale degli Stati Uniti si recano a Washington. Gli intenditori, invece, si recano a Wall Street, in questa minuscola viuzza di New York che è la via delle banche, la via che di fatto governa il paese.
Del resto è più giusto ed economico che andare a Washington. Le potenze straniere dovrebbero tenere qui i loro ambasciatori, non dov’è Coolidge. Proprio sotto Wall Street passa una galleria della subway. Se si potesse riempirla di dinamite e far saltare in aria tutta questa stradina. Se ne vada pure all’inferno!
Così volerebbero in aria i registri dei conti e dei depositi, i titoli, le innumerevoli azioni di tutti i tipi e le cifre incolonnate dei debiti esteri.
Wall Street è la prima capitale, la capitale dei dollari USA. Chicago è la seconda capitale, la capitale dell’industria.
Perciò non sarebbe sbagliato mettere Chicago al posto di Washington. Il macellaio Wilson influisce sulla realtà americana non meno di quanto vi abbia influito il suo omonimo Woodrow.
I mattatoi non passano senza lasciar traccia. Dopo avervi lavorato, o diventi vegetariano o cominci a scannare i cristiani come se niente fosse, appena il cinema cessa di divertirti. Non è un caso che Chicago sia teatro di omicidi sensazionali, residenza di banditi leggendari.

Vladimir Majakovskij

 

Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sè e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa nè perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta…Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli,liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli e il melodico richiamo dei pastori! E qui… questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e … le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e intorpiditi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia.

Rosa Luxemburg (1917)

 

Quel che penso – giacché qui si vuole intendere il mio pensiero e non soltanto la mia parola – è inoltre questo: se anche la parola della buona Rosa Luxemburg non trovasse conferma in alcun dato di fatto e già da molto tempo non ci fosse più alcuna creatura di Dio sulle verdi praterie e tutto fosse ormai asservito al commercio, ebbene, al cospetto di Dio ella avrebbe detto il vero assai più di questa possidente terriera, che nell’animale apprezza la mancanza di pretese in fatto di cibo e ne deplora solo l’andature lenta. Penso che l’umanità che guarda all’animale come ad un amato fratello abbia assai più valore della bestialità che trova sollazzevole una cosa del genere, e se ne fa beffe sostenendo che un bufalo non può essere “particolarmente sorpreso” di dover tirare un carro a Breslavia e buscarsi un “batosta sul groppone” con il manico di una frusta. Perché qui c’è quella ripugnante furbizia che “fin dalla giovinezza” fa credere ai signori del creato e alle loro dame che nell’animale non vi sia alcun moto dell’anima, che esso sia privo di sentimenti proprio come lo sono i suoi padroni, soltanto perché non ha avuto in sorte la stessa dose di superbia e non è in grado di dar voce alle proprie sofferenze in quel confuso gergo di cui costoro, invece, dispongono. Poiché però, rispetto a questa specie, l’animale ha il privilegio di non essere accessibile ad “argomenti razionali”, essa ritiene che il manico della frusta sia “di tanto in tanto inevitabile”[…] Anche quando schiaffeggiano i propri figli, misurandone le forze con la loro, o quando li fanno vessare da aspiranti teologi dalle vivide inclinazioni sessuali, si comportano così solo perché hanno qualcosa da temere dalla vita o dal cielo. Ai loro figli è dato tuttavia il vantaggio di poter cancellare l’onta d’essere nati da cotanti genitori decidendo di diventare migliori di loro, a meno che non vogliano vendicarsene sui propri figli. Agli animali, che solo con la violenza e l’inganno sono ridotti in servitù, l’umano consesso riserva altra sorte: quella d’esserne prima disonorati e poscia divorati.

Karl Kraus
(risposta alla lettera anonima di una lettrice che dava dell’isterica alla Luxemburg)

 

 

Un grande bue bianco è introdotto nel mattatoio. Niente fumo qui, niente stabbiolo come per gli inquieti maiali. La grande bestia entra sola per la porta in mezzo ai guardiani.
[…] Il grande bue ha una fronte larga. I guardiani lo sospingono con bastoni e colpi. Uno, perchè stia più saldo, gli dà un leggero colpo sulla gamba di dietro con la parte piatta della scure. Un altro, dal basso, lo abbraccia al collo. L’animale cede, cede in modo straordinariamente mansueto, quasi fosse d’accordo e non volesse ribellarsi, ora che ha visto tutto e sa tutto e che questa è la sua sorte e non c’è niente da fare. O forse anche quel gesto del guardiano gli pare una carezza.
[…] Ma dietro di lui sta quell’altro, il boia, colla mazza alzata. Non ti voltare indietro.
[…] Ora gli ficcheranno dentro il coltello e il sangue sgorgherà fuori, me lo posso immaginare, uno zampillo grosso quanto un braccio, sangue nero, bello e giubilante. E allora tutto il giubilo festoso lascerà la casa, e gli ospiti usciranno fuori a danzare, tutto un tumulto, lontani i dolci pascoli, la stalla calda, il fieno profumato, tutto via, tutto soffiato via, un buco vuoto, tenebra, ecco che viene un nuovo mondo.

Alfred Döblin (1929)

 

 

Un proprietario d’albergo, di nome Adamo, uccideva a bastonate davanti agli occhi del figlio, che gli voleva bene, i topi che sbucavano nel cortile; a sua immagine il bambino si è fatta quella del primo uomo. Che questo venga dimenticato; che non si capisca più che cosa una volta si provò davanti al carro dell’accalappiacani, è il trionfo della cultura e il suo fallimento .

Theodor W. Adorno

 

Quando ero bambino, e mi infilavo le foglie di eucalipto in tasca e avevo la maglietta che puzzava come i cani con cui giocavo, ogni volta che ammazzavo un animale con un arco, un fucile o un coltello, lo portavo direttamente in cucina e lo buttavo sul pavimento. Credo per darmi delle arie. Altrimenti perché? Volevo sembrare un cacciatore. Grondante sangue. Impregnato dell’odore di selvatico. Di serpente, coniglio, colombo e scoiattolo decapitati. Mia sorella scappava tutte le volte. Mia madre si metteva a piangere piano e raccoglieva l’uccello morto, inerme nella sua mano rugosa. Non ricordo che provassi vergogna. Non ricordo nemmeno che provassi qualcosa. Forse stavo già morendo. Poi tornavo fuori, in cerca di selvaggina.

Sam Shepard

 

lotofagi

Una delle prime avventure del nostos vero e proprio risale, è vero, molto più addietro, molto più addietro anche dell’epoca barbarica dei ceffi demoniaci e degli dei-maghi. Si tratta dell’episodio dei Lotofagi, dei mangiatori di loto. Chi mangia di quel cibo è perduto, come chi ascolta le sirene o chi è toccato dalla verga di Circe. Ma alla vittima, in questo caso, non sarebbe riservato nulla di male: “E i mangiatori di loto non meditarono la morte ai compagni nostri”. Solo l’oblio la minaccerebbe e la perdita della volontà. La dannazione non condanna ad altro che allo stato originale, senza lavoro né lotta, nella “piana feconda”: “Ma chi di loro mangiò del loto il dolcissimo frutto, non voleva portar notizie indietro e tornare, ma voleva là, tra i mangiatori di loto, a nutrirsi di loto restare e scordare il ritorno”. […] “E io sulla nave li trascinai per forza, piangenti, e nelle concavi navi sotto i banchi dovetti cacciarli e legarli”.
Il loto è una vivanda orientale. Tagliato a fettine sottili ha tuttora il suo posto nella cucina cinese e indiana. Forse la tentazione che gli si attribuisce non è altro che quella di regredire allo stadio della raccolta dei frutti della terra e del mare, più antico dell’agricoltura, dell’allevamento e della stessa caccia, più antico, insomma, di ogni forma di produzione. Non è forse un caso che l’epopea associ l’idea del paese di cuccagna al fatto di mangiare fiori, anche se si tratta di fiori che oggi non rivelano più traccia di questo carattere.
[…] Il ricordo della felicità più antica e più remota, che balena al senso dell’odorato, si fonde con l’estrema vicinanza, quella dell’incorporare. È un ricordo della preistoria [e dell’infanzia! (ndr)]. Per quante pene e tormenti abbiano subito gli uomini in quel periodo, essi non sono in grado di concepire una felicità che non viva della sua immagine: “Di là navigammo avanti, sconvolti nel cuore”.

Theodor W. Adorno, Max Horkheimer

 

 

 

 

Lee So-Ji

 

Ieri mi è successa una cosa…
Mi ero sdraiato al sole, ingegnosamente riparato da una catena sabbiosa che il vento aveva ammassato in fondo alla spiaggia: una serie di dune e di montagne ricche di gole, pendii e vallate che formavano un labirinto oblungo e friabile, coperto qua e là di arbusti vibranti sotto l’incessante pressione del vento. Mi tenevo addossato a una specie di grande Jungfrau dalla forma nobilmente cubica, ma ad appena dieci centimetri sopra il mio naso il vento sferzava senza sosta un Sahara riarso dal sole. Alcuni scarabei, non saprei come altro chiamarli, si aggiravano laboriosamente nel deserto con scopi non meglio identificati. Uno di essi giaceva sul dorso, non più distante della lunghezza del mio braccio. Il vento l’aveva rovesciato. Il sole gli bruciava l’addome, cosa quanto mai spiacevole considerata l’abitudine dell’addome di stare sempre in ombra – giaceva agitando le zampine ed era evidente che quel dimenio monotono e disperato era l’unica cosa che gli restasse da fare – già perdeva le forze, chissà dopo quante ore che stava lì, già agonizzava.
Io, gigante che la mole rendeva inaccessibile e praticamente inesistente per la bestiola, osservai quell’agitarsi… e, allungata una mano, lo liberai dal supplizio. Partì dritto davanti a sé, restituito alla vita nello spazio di un secondo.
L’avevo appena fatto quando, un po’ più in là, vidi uno scarabeo nella stessa posizione del primo. Anche lui agitava le zampine. Non avevo voglia di muovermi… Ma perché salvarne uno e non un altro? Perché l’uno sì e l’altro no? Ne fai felice uno e ne lasci soffrire un altro? Presi uno stecco, allungai il braccio e lo salvai.
Avevo appena finito quando, un po’ più in là, vidi un altro scarabeo nella stessa identica posizione. Agitava le zampine. Il sole gli bruciava l’addome.
Dovevo forse trasformare la mia siesta in un’ambulanza per scarabei morenti? Ma ormai ero troppo partecipe di quegli scarabei e del loro bizzarro e impotente dimenarsi… e probabilmente avrete capito che, una volta cominciato il salvataggio, non avevo più il diritto di fermarmi quando mi pareva. Sarebbe stato troppo terribile per quel terzo scarabeo fermarsi proprio sulla soglia della sua morte… troppo crudele, anzi quasi impossibile…almeno tra lui e quelli che avevo salvato ci fosse stato un limite, qualcosa che mi avesse autorizzato a smettere… Invece non c’era nulla: la stessa identica sabbia in un punto leggermente “più in là”, ma solo poco più in là. E anche lui agitava le zampine! Guardandomi attorno, vidi un po’ più in là altri quattro scarabei che si dimenavano bruciati dal sole – non c’era rimedio. Mi alzai in tutta la mia mole e li salvai. Filarono via.
A quel punto ai miei occhi si svelò il fianco torrido-lucente-sabbioso del pendio attiguo e, su di esso, cinque o sei puntini che si dibattevano: scarabei. Mi precipitai in loro soccorso. Li salvai. Mi ero già cosi immedesimato, cosi compenetrato nella loro sofferenza che, vedendo nelle pianure, sui valichi e nelle gole vicine sempre nuovi scarabei – un’eruzione di puntini torturati – mi misi a correre come un pazzo portando soccorso, soccorso, soccorso! Sapevo comunque che non sarebbe durato in eterno: non solo quel pezzo di spiaggia ma l’intera costa pullulava a perdita d’occhio di quegli insetti, per cui sarebbe arrivato un momento in cui avrei detto “basta” e ci sarebbe stato un primo scarabeo abbandonato al suo destino. Quale, quale, quale? Ogni volta mi dicevo “Questo!” e lo salvavo, incapace di accettare quella terribile e quasi abietta arbitrarietà: perché proprio quello lì, perché quello lì? Finché di colpo, senza sforzo, mi arresi, sospesi la mia empatia, mi fermai, pensai con indifferenza: “Be’, ora basta”, mi guardai intorno, pensai: “Fa caldo” e “È ora di rientrare” e me ne andai. E lo scarabeo, lo scarabeo davanti al quale mi ero fermato, restò lì ad agitare in aria le zampine (cosa che ora mi lasciava indifferente, come un gioco di cui mi fossi stancato — ma, sapendo che si trattava di un’indifferenza imposta dalle circostanze, me la portavo dentro come un corpo estraneo).

Witold Gombrowicz

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